Destino gramo per gli Stati africani di nuovo conio
Nella formazione dello Stato post-coloniale in Africa le eredità della storia breve del colonialismo hanno prevalso sulla storia lunga, soprattutto negli assetti geopolitici. Somalia e Marocco non accettarono il dogma di rispettare i confini coloniali andando contro le norme in vigore, ma restarono isolati. Per questo motivo il Marocco è persino uscito dalle organizzazioni panafricane. La stessa rivendicazione sollevata dall’imperatore d’Etiopia sull’Eritrea dopo la fine della presenza italiana rappresentò un tentativo di mettere in discussione gli effetti della spartizione coloniale. Anche i movimenti secessionisti dopo l’indipendenza (Katanga in Congo, Biafra in Nigeria e “nazionalismo” eritreo contro l’attrazione e più tardi l’annessione dell’Etiopia) si conformarono a divisioni coloniali (Stati o province) invece che a risultati del processo politico pre-coloniale. Il Katanga era una provincia disegnata dall’amministrazione belga nell’immenso territorio fondato da Leopoldo II come suo possedimento personale nel 1885. Il Biafra coincideva con la regione Orientale che era stata stabilita dagli inglesi in vista dell’indipendenza della Nigeria e che nel 1960 contribuì con le regioni Settentrionale e Occidentale alla nascita della Federazione di Nigeria con Lagos come capitale. Il Katanga includeva almeno due gruppi etnici con le loro istituzioni e appartenenze storiche (luba e lunda). Sebbene il Biafra presupponesse di diventate la “madrepatria” degli ibo, la repubblica secessionista includeva comunità che percepivano gli ibo come stranieri. Le risorse naturali giocarono un ruolo importante nella spinta al separatismo sia in Katanga (rame, plutonio, ecc. ) che in Biafra (giacimenti petroliferi del delta del Niger). Le caratteristiche dell’Eritrea saranno analizzate in dettaglio più avanti paragonandole al caso del Sud Sudan.
Partecipando alla cerimonia per l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993, Salim Salim, allora segretario generale dell’Organizzazione per l’unità africana (Oua), onorò una specie di impegno a nome dell’organismo che dirigeva. In effetti, l’Oua aveva sancito solennemente il principio dell’inviolabilità delle frontiere trasmesse dal colonialismo. “Oggi”, disse Salim, “riconosciamo l’indipendenza dell’Eritrea. Prima o poi ratificheremo l’indipendenza delle province meridionali del Sudan. Poi tireremo giù la saracinesca”. La profezia di Salim circa il Sudan si è realizzata nel 2011. Forse l’Unione africana (Ua), che ha sostituito l’Oua all’inizio del Duemila, si dimostrerà più flessibile dell’Oua, ma resta il fatto che Eritrea e Sud Sudan erano due eccezioni nel panorama geopolitico dell’Africa anche nel contesto in cui agiva l’Oua.
Passiamo ora ad esaminare i due casi dell’Eritrea e del Sud Sudan mettendo in risalto le analogie e le differenze sotto cinque parametri: a) storia; b) colonialismo e decolonizzzazione; c) contesto regionale; d) fattori interni ed esterni; e) chi guidò chi.
a)Le popolazioni delle province meridionali sono sempre state il lato oscuro della storia del Sudan. Esse non potevano competere con la storia del Nord, una sorta di appendice dell’epopea dei Faraoni. Sfruttate per le loro risorse (oro, minerali e schiavi), sono state discriminate in termini di lingua, religione e accesso al potere dopo la costituzione dello Stato musulmano. La retorica nazionale del Sudan è monopolizzata dalla saga del maidismo. Le comunità nere, parzialmente cristianizzate e non di lingua araba, del Sud sono rimaste fuori dal cuore del sistema.
Viceversa, le comunità stanziate nei territori che hanno poi costituito l’Eritrea, parte dell’altopiano, appartenevano all’élite dominante dell’Impero di Axum dalla sua fondazione nei primi secoli dell’età cristiana. Erano di fatto la culla dell’Impero. Erano di religione cristiano-copta e di lingua semitica come i sovrani della dinastia salomonica. Il porto di Adulis, che permetteva ad Axum di gareggiare come grande potenza mercantile con Roma, la Grecia e la Persia, era localizzato nei pressi di Massaua nell’attuale Eritrea. Più tardi, l’Abissinia-Etiopia venne accerchiata da emirati e sceiccati musulmani e perse il controllo della costa del Mar Rosso. Il Tigrai vide declinare la sua preminenza tradizionale per l’espansione verso sud del centro dello Stato, a Gondar e poi nella nuova capitale di Addis Abeba nello Scioa. L’imperatore Menelik difese tenacemente l’Impero dall’invasione italiana marciando con l’esercito nazionale fino alla frontiera settentrionale e la decisiva battaglia di Adua fu combattuta nel Tigrai, anche se l’imperatore non ritenne di inseguire le truppe italiane liberando l’Eritrea.
b)Il colonialismo di per sé – nel Corno come altrove – non si proponeva di distruggere sistenmaticamente le gerarchie preesistenti, ma, imponendo un’autorità tecnologicamente e politicamente superiore con paradigmi culturali e istituzionali prima sconosciuti, alterò le dinamiche interne. Le economie vennero ristrutturate così da servire interessi di centri lontani. I risultati dell’impresa coloniale sono stati condizionati da fattori come il tempo, l’intensità, il progetto politico e il trapianto di coloni. Il colonialismo fu percepito e subito in modi diversi dai vari gruppi a seconda della loro posizione nella scala del potere. Le reazioni al colonialismo sono comprese fra la resistenza e la complicità e persino la collaborazione: l’opposizione più fiera venne da chi deteneva il potere mentre i popoli assoggettati (le comunità nere nel Sudan, la periferia dell’Impero in Etiopia) furono favoriti in base alla logica del divide et impera e ne approfittarono.
L’interludio coloniale fu determinante nella configurazione di Stati e nazioni. Il genere di amministrazione introdotta dalle potenze europee modificò o annullò l’ordine preesistente. La gestione coloniale della terra e delle risorse era più efficiente ma aggravò l’instabilità cronica a causa della protesta contro l’occupazione, la perdita della sovranità e le espropriazioni. Talvolta la resistenza diede origine a una guerra totale. L’indipendenza dell’Etiopia fu salvaguardata nel 1896 dalla capacità di cui diede prova Menelik nel mobilitare la nazione in un momento cruciale per la sua integrità. L’Italia separò il Mareb Mellash (la terra del mare) dall’Impero e forgiò la sua colonia lungo il Mar Rosso poi chiamata Eritrea (dal nome latino del Mar Rosso) senza abbandonare tuttavia il progetto di occupare tutto l’altopiano. La “pacificazione” attuata dalle potenze coloniali differiva a seconda delle circostanze locali. Il colonialismo in quanto tale, senza molte distinzioni tra potenza e potenza, rafforzò l’importanza dell’etnicismo giacché in una situazione in cui si afferma una cultura straniera, accoppiata al dominio politico e alla manomissione delle ricchezze nazionali, il clan e le solidarietà familiari sono il mezzo più immediato di coesione e sopravvivenza. Mentre i sovrani e i gruppi dirigenti difesero in linea di principio il loro potere e la libertà nazionale, il colonialismo poteva essere l’opportunità attesa dai gruppi subordinati per rovesciare la propria posizione di inferiorità e liberarsi dei loro vecchi padroni.
Le province meridionali del Sudan entrarono a far parte del Condominio anglo-egiziano ma furono amministrate separatamente ponendo le basi per il loro futuro irredentismo. Il potere coloniale non abolì del tutto la schiavitù. La rimozione forzata di donne e bambini dal Sud verso Khartoum e le regioni arabe era tollerata dall’Inghilterra perché dopo tutto essi potevano trovare al Nord migliori condizioni di istruzione (in arabo e imparando il Corano) e migliori condizioni di vita. Nel Sud le scuole missionarie e coloniali formarono un’élite alternativa, cristiana e anglofona. L’amministrazione separata suonava come “collaborazione” per la sensibilità degli arabi stante l’atteggiamento pro-britannico dei sudisti e la loro maggiore accettazione della cultura inglese.
Realtà o invenzione, l’Eritrea è a tutti gli effetti una costruzione italiana. Fu l’Italia a tracciare i confini del territorio in cui si svilupperanno gli ideali di auto-determinazione eritrei e che il governo di Asmara difese con tanto accanimento nella guerra del 1998-2000 come se la nazione sia stata un fattore costante in tutto il corso della storia eritrea. Sebbene nel sentimento nazionalista degli eritrei abbia sempre spirato una vena di anti-colonialismo, il colonialismo facilitò in realtà il disimpegno fisico e morale dell’Eritrea dall’Etiopia. Combattendo come truppe coloniali (gli ascari) nelle guerre italiane in Africa, gli eritrei compirono una specie di uccisione rituale del padre (l’Impero). D’altro canto, per il senso della storia degli etiopici l’Eritrea era un mero accidente: il colonialismo italiano ha il valore negativo di uno stigma che le autorità e i sentimenti popolari in Etiopia non mancano mai di evocare in opposizione alla leadership eritrea, anche al fine di enfatizzare la legittimità, autenticità e superiorità dello Stato etiopico. Mentre una delle funzioni degli imperi è di creare le frontiere, l’Etiopia ha cercato di distruggere anche il ricordo delle manomissioni operate dall’impero italiano. Il recupero dell’accesso al mare fu una delle priorità per l’Etiopia già con Menelik e continuò ad assillare Haile Selassie. Nei cinque anni dell’Africa orientale italiana (1936-1941), il colonialismo sobillò più o meno consapevolmente l’identità tigrina unificando l’altopiano tigrino dell’Etiopia alla colonia Eritrea così come era nata nel 1890.
La decolonizzazione o pseudo-decolonizzazione portata a termine dall’alto nel Sudan e nel Corno non diede alcuna soddisfazione al desiderio di riscatto del Sud Sudan e dell’Eritrea. Ciò nondimeno, l’esperienza coloniale si lasciò dietro un’eredità di lungo termine per aver separato alcuni popoli dai centri di potere tradizionali sollevandoli da obbligazioni storiche con una spinta ulteriore al loro ribellismo e alle richieste di auto-determinazione, di autonomia e finalmente di indipendenza. Smontando il sistema di proprietà della terra in vigore e creando piccoli proprietari nelle zone rurali e un ceto medio nei centri urbanizzati, il colonialismo italiano contribuì a distinguere nettamente la società eritrea dal sistema aristocratico-feudale sopravvissuto in Etiopia anche durante i regni di Menelik e Haile Selassie. Così, la lealtà politica che l’Etiopia si aspettava dopo l’inserimento dell’ex-colonia italiana nell’Impero fu risentita dagli eritrei come un dominio straniero e un passo indietro nel loro sviluppo civile.
c) L’equilibrio di potere e la lotta per l’egemonia nell’area che comprende gli attuali Stati di Etiopia, Eritrea, Somalia e Gibuti in aggiunta al Sudan – l’anello di congiunzione fra il Corno in senso stretto e la valle del Nilo – presentano uno scenario complesso a più facce con numerose connessioni. Il Corno ha sofferto di tensioni e instabilità permanenti a causa dei conflitti irrisolti fra i diversi gruppi, che, per ragioni di nazionalità, lingua e affiliazione culturale, status sociale, ecc., detengono il, o sono vicini al, potere, e i gruppi che, per le stesse ragioni ma con risultati opposti, sono o si sentono esclusi, sfruttati ed emarginati. Il controllo da parte del potere imperiale o di centri politici lontani e oppressivi è stato sfidato nel tempo da movimenti locali di resistenza e opposizione, impegnati per loro conto nella costruzione di regni e identità confacenti alle caratteristiche e alle aspettative dei gruppi subordinati.
Il primo cerchio di tale tensione è costituito dai contrasti fra le potenze che hanno dimostrato la loro capacità di padroneggiare meglio lo spazio umano e fisico e, dall’altra parte, le formazioni socio-politiche che non sono riuscite ad avere un pieno accesso alla sovranità e alle risorse. Al posto degli antichi imperi si sono instaurati Stati moderni che hanno usato a loro volta la forza a detrimento delle popolazioni che con il tempo sono state assorbite per cooptazione o coercizione. I miti del passato vennero rivitalizzanti con l’intento di preservare l’unità interna e mantenere il controllo delle aree circostanti. La belligeranza, sia fra gli Stati che all’interno dei singoli Stati, ha continuato la politica in altre forme. La natura delle relazioni interne, basata più sull’ostilità che sulla cooperazione, è rimasta la stessa per tutta la storia del Corno, anche quando il Corno fu invaso da attori esterni che, a parte le specificità dell’era coloniale, possono essere considerati come un fattore catalizzatore più che come agenti creativi.
La seconda dimensione dell’instabilità del Corno corrisponde al conflitto su base regionale. Le popolazioni e gli Stati nel Corno competono più frequentemente fra loro che con le potenze esterne. Le poste che tengono vivo il conflitto comprendono terra, acqua, porti e risorse economiche, ma anche beni immateriali come la sovranità, il potere e la superiorità. Le forme di statualità differiscono grandemente da paese a paese. La sola presenza di modelli rivali può minacciare o destabilizzare i governi regnanti.
Il terzo livello di tensione o belligeranza si riferisce alle ripercussioni in loco della grande politica e alla trasposizione delle rivalità internazionali nel Corno. In questa prospettiva la spartizione dell’Africa ha svolto un ruolo speciale, con l’intervento pressoché contestuale di una mezza dozzina di potenze europee nella seconda metà dell’Ottocento. Quantunque il colonialismo abbia dispiegato tutti i tratti di un’intrusione straniera, esso si è distinto dalle influenze esterne per il fatto di aver costituito una giurisdizione straniera esercitata dall’interno. Le nazioni europee sfruttarono le differenze locali per raggiungere i propri obiettivi e appoggiarono i gruppi che potevano facilitare la loro espansione. Il periodo coloniale del Corno (1869-1941) segnò l’apice dell’interferenza da parte delle forze esterne, decise a impossessarsi delle ricchezze locali e a sconvolgere gli assetti strategici. Le principali potenze coloniali attive nel Corno sono state in primo luogo l’Italia e la Gran Bretagna. La Francia costituì un piccolo possedimento (la Costa francese dei somali, l’attuale Repubblica di Gibuti) e cercò più in generale di disturbare l’influenza esclusiva di italiani e britannici.
Grazie alla loro posizione dominante nei rispettivi sottosistemi, Sudan ed Etiopia condividevano uno stesso approccio che si può definire “conservativo”, non in termini sociali ma geopolitici. L’Eritrea, al contrario, optò per l’irredentismo e il revisionismo impostando vincoli spuri con le popolazioni marginali stanziate nelle aree contese che contrastavano allo stesso modo l’ordine coloniale e post-coloniale. Certamente l’Eritrea condivise le stesse rivendicazioni dei sudisti del Sudan. L’assioma “il nemico del mio nemico è mio amico” può tornare utile a fini tattici ma può entrare in collisione con affiliazioni come la fede religiosa o gli schieramenti internazionali. Etiopia, Sudan e Kenya sono alleati di fatto come custodi dello status quo. Sull’altro fronte è evidente l’interesse di coalizzarsi fra loro degli Stati e dei movimenti revisionisti (Somalia. Eritrea, i ribelli del Sudan, ecc.). Sia l’Etiopia che il Sudan confidavano nel principio dell’intangibilità delle frontiere codificato nel 1964 dall’Organizzazione per l’unità africana (Oua). Tuttavia, nel medio termine, le pressioni anti-centraliste e separatiste dimostrarono di essere più forti dei legami storici e delle idiosincrasie dell’Africa post-coloniale. I militari che presero il potere negli Stati del Corno non avevano alcuna dimestichezza con il pluralismo cultuale e politico che teoricamente avrebbe potuto aiutare ad alleviare le tensioni. La belligeranza, così, si propagò ovunque e divenne di più in più spietata. Nessun gruppo sociale con un solido ancoraggio nei processi produttivi e nelle dinamiche di progresso è riuscito a imporre una visione capace di abbracciare tutta la regione.
La guerriglia iniziata nei primi anni Sessanta dal Fronte di liberazione eritreo (Eritrean Liberation Front-Elf) finì trent’anni più tardi, nel maggio 1991, con l’indipendenza dell’Eritrea. Davide aveva sconfitto il Golia etiopico. Ironicamente, il separatismo fu istigato dai notabili musulmani delle terre basse, che fondarono l’Elf, ma la vittoria finale, a conclusione di una duplice guerra civile, incoronò un partito, il Fronte popolare di liberazione eritreo (Eritrean People’s Liberation Front-Eplf) che era diretto dall’élite cristiana dell’altopiano. Le comunità nomadi o semi-nomadi avevano perso il confronto con i contadini e gli abitanti delle città. Negli stessi giorni, il regime militare di Addis Abeba cadde sotto l’offensiva della guerriglia capeggiata dal Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tigray People’s Liberation Front-Tplf), che partendo da una lotta semi-separatista prese d’assalto la capitale e si impossessò del potere al centro. La solidarietà cementata durante la guerra comune condotta dai due movimenti vittoriosi contro il Derg inaugurò un periodo di pace sul fronte eritreo-etiopico. Il consenso politico su cui si fondavano i due governi dipendeva dalla capacità dimostrata negli anni della guerriglia di garantire sicurezza e beni primari ai civili del territorio sotto il loro controllo. L’Eplf fornì al Tplf armi e appoggio logistico. La stagione dell’ottimismo in Eritrea, quando il paese conobbe un eccezionale entusiasmo e una grande fiducia in se stesso, e tutto sembrava possibile, non durò a lungo. Lo stesso avvenne per la luna di miele fra Asmara e Addis Abeba. Ben presto incominciarono le recriminazioni e la destabilizzazione reciproche. La difesa del confine “coloniale” era essenziale per l’identità dell’Eritrea. Le due parti avevano visioni diverse e la demarcazione della frontiera fu rinviata. Forse per le peculiarità di uno specialissimo processo di formazione dello Stato e del pedigree personale dei membri del gruppo dirigente, la neonata Eritrea divenne uno Stato guerriero. In effetti, l’Eritrea provocò e combatté con tutti i suoi vicini: Sudan (1994), Yemen (1995), Gibuti (1996) e alla fine Etiopia (1998).
In Sudan, la lunga guerra fra Nord e Sud finì con l’accordo firmato nel 2005 (il Comprehensive Peace Agreement-Cpa) che aprì la strada all’indipendenza del Sud Sudan mediante un referendum popolare. Nel Sud Sudan, come in Eritrea, il nuovo Stato era sotto l’egida dell’ex-movimento di liberazione e dunque di un partito-stato con una mentalità militare (il Sudanese People’s Liberation Movement/Army-Splm/a). Mentre nel caso Etiopia-Eritrea fu l’entità imperiale a essere tagliata fuori dal mare per effetto della separazione, il Sudan ha mantenuto la sua posizione dominante sulle vie del commercio estero anche dopo la secessione delle province meridionali: è il Sud Sudan a soffrire tutti gli inconvenienti di uno Stato occluso. Sia nel rapporto Etiopia-Eritrea che in quello Sudan-Sud Sudan un nuovo casus belli derivò dalla definizione della frontiera comune, dal sospetto di guerre per procura e dal transito di merci per il territorio dello Stato che gode dell’accesso al mare. Il governo eritreo mantenne l’approccio “revisionista” anche dopo raggiunta l’indipendenza e sposa tutte le cause che possono minare l’egemonia dell’Etiopia nel Corno. Una simile strategia può anche comportare una clamorosa incoerenza: un bell’esempio è il governo cristiano di Asmara che sostiene il jihadismo islamico in Somalia. È troppo presto per stabilire se la politica estera del Sud Sudan si orienterà verso il conservatorismo o il revisionismo. L’interrogativo più inquietante nelle relazioni di Juba con i paesi vicini riguarda le acque del Nilo: il Sudan sta dalla parte dell’Egitto mentre gli alleati del Sud Sudan spingono per una revisione delle convenzioni in corso che penalizzano gli Stati neri.
d)L’annessione dell’Eritrea all’Impero etiopico nel 1962 con un atto di forza di Haile Selassie venne universalmente tollerata malgrado l’evidente violazione della lettera e dello spirito della risoluzione presa dalle Nazioni Unite sul destino dell’ex-colonia italiana circa dieci anni prima. L’ordine che vigeva negli anni della guerra fredda scoraggiava ogni modifica delle frontiere. I Fronti di liberazione eritrei non meritarono nessuna solidarietà nel contesto della politica africana a causa della generale riluttanza dell’Oua a mettere in discussione l’integrità degli Stati membri. Personalmente, Haile Selassie era considerato il fondatore e il padre dell’Oua. Qualche forma di appoggio venne in particolare al Fronte di liberazione dell’Eritrea dai governi arabi in virtù del la comune appartenenza all’islam e alla tradizione avversione fra Etiopia e mondo arabo-islamico. L’esercito etiopico si valse prima del sostegno militare degli Stati Uniti e dopo la rivoluzione del Derg dell’aiuto dell’Unione Sovietica. Con qualche interruzione causata dalle guerre nel Medio oriente, esplicito fu in genere il sostegno all’Etiopia da parte dello Stato di Israele. A parte gli antichi legami fra l’ethos abissino-etiopico e le tradizioni giudaiche, Israele temeva che un’Eritrea indipendente avrebbe trasformato il Mar Rosso in un “lago arabo”. Il successo finale della guerra di liberazione degli eritrei fu ottenuto essenzialmente sul campo di battaglia e fu ratificato a livello internazionale dopo il collasso del bipolarismo. Nel 1990-91, il Derg era completamente isolato e l’élite cristiana dell’Eplf dava sufficienti garanzie tanto agli Stati Uniti quanto a Israele.
Sebbene l’Egitto e gli Stati arabi abbiano sostenuto il governo di Khartoum nella sua guerra di repressione contro il Splm/a, tutte le nazioni, Israele in testa, interessate a sovvertire il mondo arabo-musulmano appoggiarono e persino stimolarono il secessionismo in Sudan. Il regime sudanese è stato tacciato di essere un alleato del terrorismo internazionale dopo l’accesso al potere di Bashir e Turabi con il colpo di Stato dei fondamentalisti nel 1989. Nel 1998 il Sudan fu oggetto di un raid dell’aviazione americana che bombardò un’industria farmaceutica accusata – pare falsamente – di produrre armi biologiche. Nella fase finale della guerra Nord-Sud, il governo americano impegnò tutto il suo prestigio per raggiungere un accordo di pace e assicurò la sua benedizione alla possibilità che il Sud Sudan al termine del processo diventasse indipendente. Se ne deduce che, a differenza dell’Eritrea, la secessione del Sud Sudan ebbe un appoggio decisivo da parte di forze esterne. Nel sostegno a Garang, il fondatore del Splm/a, erano schierate negli Stati Uniti le lobbies ebraica, evangelica e afro-americana.
Anche se in linea di principio Etiopia e Sudan hanno propugnato una stessa linea conservativa sul punto della stabilità statuale, le due guerre civili suscitarono solidarietà incrociate anche in Sudan contro l’Etiopia e in Etiopia contro il Sudan rispettivamente: il Sudan aiutò la guerra eritrea offrendo “santuari” ai Fronti in territorio sudanese per bilanciare l’aiuto garantito di tanto in tanto da Addis Abeba ai cristiani in lotta nel Sud Sudan.
e)La guerra di liberazione in Eritrea fu iniziata dalle comunità musulmane della costa ma fu portata a termine vittoriosamente da un movimento diretto dai cristiani. L’Elf fu creato con il proposito di riscattare le popolazioni discriminate delle terre basse impersonava dunque una contro-élite. Invece l’élite di lingua tigrina dell’altopiano che fondò e diresse l’Eplf apparteneva all’establishment che beneficiava di una solida egemonia nell’Impero etiopico dai tempi di Axum. Lo stesso Haile Selassie riconosceva la nobiltà dei tigrini e li considerava cugini o fratelli minori (junior partners) degli amhara, l’etnia o per meglio dire la cultura alla testa dell’Impero. Nel xix secolo il Tigrai e lo Scioa monopolizzarono la contesa per la corona imperiale. Teodoro ii e Giovanni iv, gli ultimi imperatori prima di Menelik, re dello Scioa, erano di ceppo tigrino. Dopo la fine del colonialismo italiano, malgrado un iniziale impulso “nazionale” del Tigrai contro il centro, i tigrini dell’Eritrea nutrivano sentimenti unionisti con l’Etiopia. Nei dieci anni della federazione fra Etiopia ed Eritrea, il governo di Asmara fu saldamente in mano al Partito unionista. L’esperienza di governo fu largamente deludente per gli abusi commessi dal rappresentante dell’imperatore. La violenza con cui Addis Abeba represse la guerra di liberazione rovinò per sempre le relazioni tra eritrei ed etiopici. L’indipendenza divenne l’obiettivo di tutta l’Eritrea. Artificiale o no, l’Eritrea come nazione in cerca di auto-determinazione si formò lottando contro una potenza percepita come “straniera” e la retorica dell’Eplf echeggiava le ideologie anti-coloniali ma applicate a un’entità statale africana (l’Etiopia, non l’Italia).
Nel Sudan l’élite che si rivoltò contro l’egemonia degli arabi apparteneva a un’élite completamente differente da quella al potere a Khartoum: di lingua inglese, in larga parte cristianizzata, estranea alla narrativa del mahdismo e della statualità musulmana. Una volta fallito il sogno di un Sudan unico, basato su una democrazia civica, che almeno John Garang perseguì come sua prima scelta, il secessionismo divenne il solo obiettivo dei sudisti. In Sudan ci fu uno scontro fra due élites con un fondamento diverso in termini di geografia, storia e cultura: il Nord era orientato verso la nazione araba, il Sud era attirato dall’Africa nera. Le sofferenze del passato come riserva di schiavi e ricchezze minerali assicuravano un sostegno popolare di massa al movimento di liberazione del Sud. La base era in un certo senso più secessionista della leadership. Soprattutto all’inizio della guerra, il Splm/a considerava le “aree liberate del Sud” come un rifugio per le comunità oggetto di discriminazione e sfruttamento, in particolare i dinka, più che uno Stato in divenire. Dopo la morte di Garang, che perì in un incidente aereo molto discusso poco dopo la firma dell’accordo del 2005, la direzione del movimento e poi del governo passò comunque a secessionisti convinti.
Per le scelte dei suoi dirigenti l’Eritrea e diventata una specie di Stato paria. Alcuni profetizzano che il Sud Sudan rischia di diventare uno Stato fallito o un semi-stato vista la mancanza di una infrastruttura accettabile e la forte dipendenza da fattori esterni. La frammentazione degli Stati della Periferia, sempre più spesso stimolata dalle potenze del Centro per risolvere i contrasti interni o le violazioni grossolane dei diritti umani, rappresenta una minaccia per la governance e la stabilità se dà vita a entità politiche che mancano dei parametri essenziali della sovranità. La “territorializzazione” delle rimostranze e rivendicazioni non risolve di per sé i problemi della democrazia e della giustizia.
Gian Paolo Calchi Novati