di Gianni Fodella, docente universitario di Economia all’Università statale di Milano
Per una rettifica dei termini
Siamo immersi nel disordine e a questa confusione contribuiscono potentemente giornali, radio e televisione, i mass media che sarebbe più corretto chiamare mezzi di disinformazione di massa.
Molto di ciò che è accaduto a danno dell’umanità deriva dalla mancanza di una vera comprensione della realtà di cui è in buona parte colpevole l’uso irresponsabile della lingua. Le parole vaghe e imprecise sono fonte di confusione, nascono da concetti sbagliati e perpetuano l’errore nel quale si dibatte l’umanità quando si propone di analizzare un problema per risolverlo.
Come sarebbe bello invece, nello scrivere e nel parlare, impiegare soltanto parole che abbiano un significato preciso e univoco facendo uso di termini che non diano origine a equivoci. Per un grande pensatore del remoto passato nel “rettificare i nomi”, nell’usare i “nomi con il loro significato vero” – in cinese zhen ming (zhen = vero, reale, genuino, giusto; ming = nome) – consiste precisamente l’arte di governare. Quando le parole hanno significati ambigui non può esserci buongoverno e si rischia che a dominare sia invece il malgoverno.
La prima importante distinzione da fare è quella tra REDDITO e RICCHEZZA
Accade infatti spesso che venga usata a torto la parola RICCHEZZA come sinonimo di REDDITO per indicare il REDDITO NAZIONALE, l’insieme dei redditi a qualsiasi titolo percepiti in un certo anno dai cittadini del sistema economico del Paese.
Il termine RICCHEZZA – sinonimo di PATRIMONIO o di CAPITALE – appartiene alla categoria dei concetti “fondo” e non può assolutamente essere considerato sinonimo di REDDITO o PIL, che appartengono invece al novero dei concetti “flusso”.
Infatti il REDDITO o PIL non può che essere misurato in relazione al tempo trascorso; per questo quando si parla del PIL o del REDDITO NAZIONALE ci si riferisce a questa grandezza prodotta in un certo lasso di tempo, normalmente l’anno solare o fiscale.
La RICCHEZZAo PATRIMONIO o CAPITALE invece può essere misurata non soltanto relativamente a un anno, ma anche in relazione a un dato momento preciso, mentre il REDDITO o PIL “istantaneo” sarebbe un non senso dal punto di vista logico, e quindi anche economico.
DEBITO e PIL: entità non confrontabili tra loro
Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non ha senso paragonare il DEBITO PUBBLICO al REDDITO NAZIONALE o PIL, come incautamente stabilito dai parametri di Maastricht e come ci viene continuamente ribadito in ogni resoconto giornalistico e in ogni dibattito al quale partecipano persone che dovrebbero sapere di cosa parlano. Non è infatti ragionevole e razionale confrontare una grandezza appartenente al novero dei concetti fondo a una grandezza appartenente al novero dei concetti flusso.
Se questa correlazione viene invece fatta, ne nasce una confusione concettuale che porta ad essere in errore nell’analisi della situazione e a prendere decisioni di politica economica errate perché basate su presupposti privi di coerenza logica ed economica.
E’ sorprendente constatare come persino gli economisti e i giornalisti specializzati in materia economica che partecipano agli innumerevoli dibattiti dai quali siamo quotidianamente afflitti non sentano il bisogno di chiarire come stiano veramente le cose.
In verità, la ragione di tale imprecisione e sciatteria terminologica fonte di confusione, nasce dal fatto che gli economisti non si sono mai veramente interessati della RICCHEZZA o PATRIMONIO del Paese, ma sempre e soltanto del REDDITO e del suo andamento. E’ soltanto da qualche anno, da quando la consapevolezza della distruzione e della menomazione dell’ambiente risulta ormai evidente ai cittadini (ma a quanto pare non alla maggioranza degli economisti), che il problema della depauperazione della RICCHEZZA o PATRIMONIO del Paese comincia ad essere percepito.
Se consideriamo poi il DEBITO PUBBLICO dei vari Paesi, è evidente che il problema per i governi non è stato tanto quello della sua entità in termini assoluti, quanto piuttosto quello della gestione nel tempo del DEBITO stesso.
SERVIZIO DEL DEBITO e PIL
L’ammontare del DEBITO PUBBLICO che si è venuto formando nel corso degli anni dà annualmente origine al SERVIZIO DEL DEBITO PUBBLICO costituito da:
1) pagamento degli interessi sui titoli in essere in quell’anno;
2) rimborso dei titoli che giungono a scadenza in quello stesso anno.
Ed è il valore del SERVIZIO DEL DEBITO che può essere utilmente correlato al valore del PIL, che dà origine al debt service ratio o tasso del servizio del debito, e che permette di valutare l’onere che comporta il livello di indebitamento del Paese per il bilancio pubblico.
DEBITO e RICCHEZZA
A quale grandezza correlare il DEBITO PUBBLICO (concetto fondo) accumulato? Non si può confrontare con il REDDITO o PIL (concetto flusso) ma più ragionevole sarebbe compararlo alla RICCHEZZA NAZIONALE o PATRIMONIO (concetto fondo), una grandezza la cui misurazione non è tuttavia facile per la presenza di beni che non hanno prezzi di mercato. Anche da ciò nasce il disinteresse degli economisti per la misura del PATRIMONIO.
Ma questa mancanza di interesse risulta sempre più colpevole man mano che scopriamo di depauperare il CAPITALE o PATRIMONIO o RICCHEZZA NAZIONALE nei processi produttivi che accelerano l’entropia e che consumano, senza badare agli sprechi, le risorse non rinnovabili del pianeta Terra.
La RICCHEZZA NAZIONALE, soprattutto in Paesi di antica civiltà e popolosi come l’Italia, favorita da un clima mite adatto alla vita del genere umano, è di dimensioni straordinariamente grandi e comprende il PATRIMONIO NATURALE e il CAPITALE SOCIALE FISSO.
Il PATRIMONIO NATURALE è l’insieme dei beni di cui la natura ha dotato il Paese; gli economisti hanno parlato (soprattutto in passato) delle risorse naturali in termini di dotazione dei fattori (factor endowment) e hanno attribuito importanza soprattutto a quelle risorse naturali di rilevanza economica come terra coltivabile, pascoli, foreste e giacimenti minerari, ma dobbiamo tener presente che di questo PATRIMONIO NATURALE fanno parte anche cespiti appartenenti al demanio quali laghi, lagune, fiumi, monti, spiagge, giacimenti di acque dolci di falda e acque territoriali marittime che normalmente non sono oggetto di valutazione economica né di compravendita.
Le condizioni climatiche, la piovosità e la collocazione geografica, e quindi la distribuzione del territorio in base a latitudine/longitudine e all’altitudine, sono tutti elementi che permettono di valutare il PATRIMONIO NATURALE di un Paese e di cui sarebbe importante una stima condotta periodicamente, anche al fine di accertare in che misura esso sia rimasto inalterato nel tempo o si sia ridotto minando in maniera più o meno rilevante le condizioni di vita della popolazione insediata nel territorio di quel sistema economico, e compromettendo o meno le possibilità di vita delle generazioni future.
Per esempio, i terreni agricoli coltivati a mais in Italia stanno facendo diminuire il valore economico di questa porzione di PATRIMONIO NATURALE sia perché ne viene ridotta la fertilità naturale, sia per l’introduzione di elementi inquinanti, sia infine per il depauperamento della falda acquifera alla quale si attinge per irrigare il mais, una coltura cerealicola altamente sfruttante dei terreni.
Se la falda acquifera della Pianura Padana è stata inquinata dall’uso industriale di prodotti chimici non biodegradabili come la trielina e dai residui dei fertilizzanti chimici, dei pesticidi e dei diserbanti usati nella coltivazione del riso, una stima della riduzione di questa porzione di PATRIMONIO NATURALE sarebbe opportuna in modo da porvi rimedio, ma anche perché si potrebbe così scoprire che una parte del reddito o PIL prodotto dal Paese annualmente con l’esercizio dell’attività agricola, non è vero reddito o PIL ma proviene dal depauperamento del CAPITALE o PATRIMONIO NATURALE; scambiare per reddito il patrimonio che si riduce è una pratica lesiva delle condizioni di vita e delle generazioni future. A livello microeconomico questo errore non viene compiuto: i saggi amministratori delle imprese sanno che il patrimonio dell’azienda va protetto, mantenuto, sostituito facendo uso dei fondi di ammortamento.
Il PATRIMONIO di un Paese non è costituito soltanto della sua componente naturale, ma a questa deve essere aggiunto il CAPITALE SOCIALE FISSO (social overhead capital), quella parte del PATRIMONIO costruita dall’azione dell’uomo. Ne fanno parte i terrazzamenti di colline e montagne per rendere possibile, più agevole e produttiva l’agricoltura, i canali per irrigazione e navigazione, le strade, le ferrovie, i porti, le dighe, le reti idriche elettriche telefoniche fognarie e le costruzioni di ogni tipo dalle scuole agli ospedali, dagli stadi alle caserme, dalle fabbriche alle banche, dai palazzi pubblici e per abitazioni private ai luoghi di culto.
Che le varie componenti del CAPITALE SOCIALE FISSO siano di proprietà pubblica o privata non è poi così rilevante come si potrebbe credere, quello che conta è la sua entità, la sua regolare periodica manutenzione e il suo grado di utilizzo.
Un capannone costruito su un terreno coltivabile pianeggiante che non venga utilizzato a fini produttivi porta alla riduzione sia del CAPITALE SOCIALE FISSO sia del PATRIMONIO NATURALE costituito dalla terra resa incoltivabile dalla presenza del capannone. Se un edificio viene abbandonato o un ramo ferroviario dismesso, significa che è venuta meno una porzione di CAPITALE SOCIALE FISSO, non importa se di proprietà pubblica o privata. Tuttavia, ragioni di prudenza vogliono che almeno una parte di esso sia o rimanga di proprietà pubblica.
DEBITO PUBBLICO e PATRIMONIO PRIVATO
Veniamo ora alle ragioni che hanno portato alla nascita del DEBITO PUBBLICO, quello che lo Stato contrae con i risparmiatori, e all’esame dei suoi precisi connotati.
Si tratta di quell’ammontare di risorse liquide che la mano pubblica – emettendo Titoli di Stato (in Italia BOT, CCT, CTZ, BTP, BOC e assimilati) – ha nel corso del tempo incamerato per poter far fronte alle proprie esigenze di spesa senza dover ricorrere all’allargamento dell’imposizione fiscale diretta o indiretta.
Attraverso la fiscalità i governi impongono ai cittadini di cedere allo Stato una parte non irrilevante dei redditi da loro prodotti nel corso dell’anno; non è possibile sottrarsi a questa imposizione senza violare le norme e divenire evasore fiscale.
L’evasione fiscale non è purtroppo sempre combattuta con i metodi e gli strumenti più idonei e nel nostro Paese rimane un problema parzialmente irrisolto. Un incentivo all’elusione e all’evasione fiscale è la pressione fiscale, soprattutto quando essa diviene molto pesante e addirittura intollerabile quando le imprese rispettose delle norme fiscali si trovino come oggi a competere con imprese che evadono il fisco o il cui capitale non costa nulla perché ha origini criminose ed è frutto di attività illegali.
Gli introiti per l’erario grazie alle vendite dei Titoli di Stato italiani, acquistati dai privati e dalle istituzioni, vanno visti come preziose fonti complementari delle entrate fiscali e in qualche modo anche come un surrogato delle imposte evase o eluse.
Il DEBITO PUBBLICO è quindi una benedizione, uno dei capisaldi che permettono alla macchina amministrativa dello Stato di perseguire meglio le proprie finalità e di svolgere fino in fondo le proprie funzioni riducendo al minimo le sofferenze della popolazione.
Chiedere ai cittadini i loro risparmi, remunerandoli adeguatamente, per svolgere compiti di interesse nazionale ai quali si potrebbe adempiere soltanto con un’imposizione fiscale aggiuntiva, è un comportamento degno di un governo giusto ed equo.
In quest’ottica l’obiettivo del pareggio di bilancio – considerato da alcuni un obiettivo così importante da dover essere perseguito ad ogni costo e da essere inserito addirittura nella carta costituzionale dello Stato – si rivela come riduttivo, poco lungimirante e lesivo dei veri interessi dei cittadini.
Esaminiamo ora come si configuri quella parte del PATRIMONIO PRIVATO che non è costituito da attività reali (abitazioni, terreni, oggetti di valore, fabbricati non residenziali, impianti, macchinari, attrezzature, scorte e avviamento) ma da valori mobiliari che rappresentano potere d’acquisto (denaro contante, depositi bancari e del risparmio postale, titoli pubblici italiani e stranieri, obbligazioni private, azioni e partecipazioni in società di capitali, fondi comuni d’investimento, porzioni di beni “cartolarizzati” espressi in certificati di proprietà, polizze di assicurazione per fondi pensione e ramo vita, crediti commerciali).
Isoliamo per i nostri scopi i soli titoli pubblici italiani e soffermiamoci sugli aspetti più importanti da sottolineare, e precisamente sui connotati che i Titoli di Stato assumono quando passano di mano dall’ente emittente che si indebita ai sottoscrittori che li acquistano accrescendo per questa via il loro PATRIMONIO PRIVATO:
– per lo Stato emittente assume grande rilevanza il pagamento degli interessi sul totale del debito in essere e la restituzione di quella parte del debito che ogni anno giunge a scadenza, problema denominato della gestione del “servizio del debito” il cui onere annuo rispetto al PIL (tasso di servizio del debito = debt service ratio) implica come già detto una stretta correlazione con il reddito prodotto annualmente;
– per il cittadino sottoscrittore gli interessi derivanti dal pagamento delle cedole annesse ai titoli, rappresentano un flusso di reddito da destinarsi a consumo o a risparmio/investimento, mentre i titoli del DEBITO PUBBLICO posseduti sono parte del suo PATRIMONIO o ricchezza o capitale che dir si voglia.
Questo duplice aspetto che assume il DEBITO PUBBLICO, di essere al contempo un obbligo di segno negativo per la mano pubblica e nello stesso tempo parte della RICCHEZZA NAZIONALE posseduta dai privati, è una caratteristica essenziale e trascurata della sua vera natura.
Quindi, lungi dall’essere un onere intollerabile che grava sul futuro dei nostri figli e nipoti, e pur costituendo un’obbligazione della mano pubblica, i titoli rappresentativi del DEBITO PUBBLICO divengono contestualmente parti del PATRIMONIO PRIVATO, familiare o societario, di coloro che li hanno acquistati e tali rimarranno, pur potendo essere negoziati in qualsiasi momento, per tutto il tempo della loro durata o vita residua, fino alla naturale scadenza.
E’ sempre stato difficile immaginare uno strumento di investimento altrettanto sicuro, semplice da usare e flessibile quanto i titoli del DEBITO PUBBLICO; per questo i risparmiatori italiani li hanno sempre apprezzati e favoriti nelle loro scelte di investimento dei risparmi, anche quando erano consapevoli che gli alti tassi di remunerazione non sarebbero bastati a coprire la crescita dei prezzi al dettaglio di beni e servizi, e consci dei rischi, dato che il variare dei tassi avrebbe reso instabili i corsi dei titoli a più lunga scadenza.
Questa instabilità (oggi si preferisce chiamare questo andamento erratico volatility) potrebbe tradursi talvolta in perdite per chi abbia urgente necessità di vendere, ma anche permettere di realizzare guadagni in conto capitale sfruttando i momenti favorevoli.
DEBITO PUBBLICO e DEBITO ESTERO
Ridottosi con l’avvento dell’euro il rischio di cambio che caratterizzava la lira, i titoli pubblici italiani hanno cominciato ad essere acquistati anche da investitori esteri, molti dei quali desiderosi non tanto di goderne regolarmente i frutti dati dai rendimenti, quanto di dedicarsi alla compravendita speculativa ad alta frequenza.
Alla base della speculazione contro i titoli italiani del debito pubblico vi è la diffusione di notizie che creano un clima d’incertezza (sulla solvibilità degli Stati e sulla tenuta dell’euro) attuato con metodi che dovrebbero portare alcuni protagonisti come le agenzie di rating (ma non soltanto) a essere incriminati per aggiotaggio, e agevolato da comportamenti inadeguati delle autorità europee (Commissione, BCE Banca Centrale Europea, EBA European Banking Authority/Agency) e di alcuni Governi che si avvantaggiano dei più bassi tassi ai quali possono indebitarsi.
Anche se la quantità dei titoli oggetto di speculazione può essere relativamente modesta, l’elevato numero e la velocità delle transazioni telematiche danno ai movimenti speculativi un “potere di mercato” determinante che li rende protagonisti senza rivali dell’andamento dei corsi che determinano i tassi reali di remunerazione dei titoli.
Per creare un argine, se non porre termine, a una situazione che danneggia quei sottoscrittori che acquistano i titoli pubblici italiani senza intenti speculativi ma con l’obiettivo di crearsi una rendita sicura, non vi è che un rimedio: ricomprare i titoli del debito pubblico italiano facendoli ritornare in patria.
Far tornare nelle nostre mani almeno una parte del debito pubblico italiano detenuto all’estero, e che attraverso la speculazione di cui è oggetto contribuisce a perpetuare un clima di sfiducia nei confronti dei titoli pubblici italiani e dei titoli denominati in euro in generale, può essere non soltanto un gesto patriottico, ma anche una mossa che nello stesso tempo può contribuire a sanare una situazione di palese ingiustizia, a favore di Paesi dell’area euro in condizioni simili o addirittura peggiori della nostra. Se non è equo che l’Italia sia costretta ad indebitarsi al 7% mentrela Germaniapossa farlo a meno del 2%,la Franciaa poco più del 3% e anchela Spagnaa tassi inferiori ai nostri di quasi due punti percentuali, l’aspetto positivo di questa situazione che penalizza i conti pubblici italiani è che con interessi così elevati pagati dai titoli pubblici italiani le famiglie che li detengono possano godere di rendite consistenti che non sarebbe agevole istituire altrimenti.
Diventa quindi urgente passare a misure concrete senza attendere oltre. Nell’esempio fatto in APPENDICE* si mostra come spendendo oggi 113.930 euro, si potrebbe ottenere una rendita mensile netta di 656 euro per circa 12 anni (94.464 euro) ricevendo poi alla scadenza del BTP (1 novembre 2023) il rimborso di 100mila euro.
Tuttavia, perché il sistema economico ne tragga davvero vantaggio, occorre che beneficino della creazione di queste consistenti rendite i residenti in Italia che le potranno così destinare a consumi o a investimenti tali da permettere all’economia del Paese di beneficiarne.
C’è chi sostiene che in Italia non vi siano più le risorse patrimoniali per comprare una parte consistente del DEBITO PUBBLICO italiano detenuto da investitori esteri. Ma è giustificato questo pessimismo? Non lo è per diverse ragioni, ma soprattutto per i fatti concreti descritti e analizzati in vari studi l’ultimo dei quali ad opera della BANCA D’ITALIA “La ricchezza delle famiglie italiane Anno 2010” Nuova serie Anno XXI – Numero 64, pubblicato il 14 Dicembre 2011 http://www.bancaditalia.it/statistiche/stat_mon_cred_fin/banc_fin/ricfamit/2011/suppl_64_11.pdf
PATRIMONIO e DEBITO PRIVATO in Italia
Alla fine del 2010 la ricchezza lorda delle famiglie italiane, sostanzialmente invariata rispetto alla fine del 2009, era pari a circa 9.525 miliardi di euro, corrispondenti a poco meno di 400mila euro in media per famiglia. Le attività reali rappresentavano il 62,2% della ricchezza lorda (5925 miliardi di euro), le attività finanziarie il 37,8% (3600 miliardi di euro).
Tenendo conto che alla data dell’1-1-2011 la popolazione residente in Italia era secondo l’ISTAT di 60.626.442 individui, la ricchezza media impiegata in attività reali era pari a 97.730 euro pro-capite mentre quella impiegata in attività finanziarie era di 59.380 euro pro-capite.
Poiché le passività finanziarie ammontavano a 887 miliardi di euro, dalla ricchezza finanziaria pro-capite andavano dedotti mediamente 14.630 euro, portando la ricchezza finanziaria netta pro-capite a 44.750 euro, quindi 2713 miliardi di euro in totale, somma alla quale potrebbe, e dovrebbe, essere correlato l’intero ammontare del DEBITO PUBBLICO italiano, pari a 1.843.015 milioni di euro (30.400 euro pro-capite) nel 2010, composto per oltre tre quarti da passività a medio lungo termine (1.418.737 milioni) quasi completamente a tasso fisso.
Il 46,15% del debito pubblico è detenuto dalla Banca d’Italia o da istituzioni finanziarie italiane, il 9,58% è posseduto da altri residenti, mentre il restante 44,27% (816 miliardi di euro) è allocato all’estero (fonte: Banca d’Italia, Finanza pubblica, fabbisogno e debito, maggio 2011).
Se per evitare pericolose speculazioni da parte dei mercati esteri ci impegnassimo ad acquisire i due terzi del DEBITO PUBBLICO italiano allocato all’estero (per fare in modo che ne rimanga all’interno almeno l’85%) dovremmo sborsare 544 miliardi di euro, una somma grande ma relativamente modesta in termini pro-capite (8.973 euro) che riporterebbe la quota di titoli pubblici italiani detenuti da residenti ai valori percentuali di alcuni anni fa, prima dell’allontanamento dai nostri titoli a favore di carta finanziaria italiana ed estera (azioni, obbligazioni, fondi) rivelatasi nel tempo molto deludente sul piano dei rendimenti annui, ma soprattutto in termini di guadagni attesi in conto capitale.
Per esempio nel 1995 il valore dei titoli pubblici italiani che erano nel portafoglio degli italiani e quindi parte del loro PATRIMONIO, era equivalente a 326,7 miliardi di euro correnti e le obbligazioni private italiane (quasi tutte bancarie) ammontavano a 40,7 miliardi di euro.
Nel 2010 i due dati (sempre in euro correnti) erano divenuti rispettivamente 181,4 e 366,7 miliardi di euro. I depositi su conto corrente bancario sono passati nello stesso periodo da193,8 a494,4 miliardi di euro correnti. I fondi comuni d’investimento sono passati da 67,4 (1995) a 238,2 (2010) miliardi di euro correnti dopo essere stati ben più cospicui nel 1998 (369,1), 1999 (470,5), 2000 (475,4), 2001 (408,9), 2002 (373,2) ed essere rimasti su questi livelli fino al 2006 (367); salvo precipitare poi a 190,6 nel 2008 dopo essere stati 320 miliardi di euro nel 2007 e 221 nel 2009.
Per acquistare dunque i due terzi del DEBITO PUBBLICO italiano allocato all’estero pari a 544 miliardi di euro, basterebbe ridurre l’entità di alcune voci, a cominciare dai depositi bancari (non soltanto quelli in conto corrente) che ammontavano nel2010 a657,3 miliardi di euro, dato che i titoli del debito pubblico italiano sono facilmente ri-trasformabili in depositi bancari. A questi si potrebbero aggiungere i parziali smobilizzi delle obbligazioni private italiane (366,7 miliardi di euro) e i titoli esteri (165,1 miliardi di euro) che, godendo di rendimenti modesti e di corsi superiori a 100, potrebbero essere utilmente venduti.
La crescente domanda di titoli italiani ne farebbe aumentare il prezzo e ridurre i rendimenti, ma probabilmente senza cambiare radicalmente la situazione se non nella natura della proprietà, da estera a italiana.
Come si vede non soltanto esistono margini tali da consentire spostamenti piuttosto ampi nel portafoglio finanziario dei risparmiatori, ma si sta facendo sempre più strada la consapevolezza degli errori commessi dalle banche e dai promotori finanziari che hanno spinto, senza sufficiente riflessione e ponderazione e badando al loro immediato tornaconto, i risparmiatori a mutare il quadro operativo nel quale veniva gestito quella parte del reddito non consumato chiamato risparmio.
Persino le passività finanziarie di cui gli italiani sono titolari (e che nel 2010 ammontavano a 887 miliardi di euro, e cioè 14.630 euro pro-capite), indicano che la situazione è sotto controllo.
Infatti, la voce principale del debito privato degli italiani (367,6 miliardi) si riferisce a prestiti per l’acquisto della casa; il credito al consumo (120,3 miliardi) è cresciuto molto in questi ultimi anni ma resta relativamente modesto indicando che gli italiani non vivono ancora al di là dei propri mezzi, come si fa invece in Paesi considerati a torto virtuosi e come mostrano i seguenti confronti internazionali dai quali appare inequivocabilmente che le famiglie italiane risultano le meno indebitate, dato che l’ammontare dei debiti è in Italia pari all’82% del reddito disponibile mentre in Francia e in Germania è di circa il 100%, negli Stati Uniti e in Giappone è del 130%, nel Regno Unito del 170%.
Inoltre, per finire, occorre sapere che le famiglie italiane dispongono di una RICCHEZZA elevata e pari nel2009, a8,3 volte il REDDITO disponibile, contro 8 volte nel caso del Regno Unito, 7,5 volte della Francia, 7 del Giappone, 5,5 del Canada e 4,9 volte degli Stati Uniti.
Dov’è allora tutta questa virtù dei nordici e dei Paesi che indichiamo come modelli ai quali guardare con ammirazione?
Non soltanto quindi le risorse finanziarie per ricomprare una fetta importante del nostro DEBITO PUBBLICO ora all’estero ci sarebbero, date le dimensioni del PATRIMONIO PRIVATO di cui gli italiani dispongono – e osservando che i debiti si ripagano attingendo al patrimonio più che al reddito – ma approfittando per una volta della cattiva stampa di cui l’Italia soffre sempre, potremmo ricomprarlo a prezzi convenienti, se ci affrettiamo a farlo concretamente.
I tempi che stiamo attraversando consigliano prudenza, e non soltanto in materia finanziaria. La linfa vitale costituita dal lavoro si inaridisce ogni giorno di più e al risparmio si chiede sempre meno di restare negletto o mettersi pericolosamente in gioco per accrescersi e moltiplicarsi con rapidità.
Più modestamente dovremmo desiderare che il risparmio potesse venire in aiuto al reddito decrescente, o addirittura che potesse fare le veci di un reddito che, mancando il lavoro, non siamo più in grado di generare in modo sufficiente a mantenere il livello di vita al quale siamo abituati.
APPENDICE*
UN ESEMPIO DI INVESTIMENTO IN BTP-BUONI DEL TESORO POLIENNALI
Può essere importante che le famiglie procedano al più presto a questo investimento a sostegno del Paese consapevoli dei rischi (modesti) ma anche della possibilità che, abbassandosi i tassi di interesse ai quali l’Italia oggi si indebita, i corsi crescano permettendo dei sostanziosi guadagni in conto capitale in caso sia necessario vendere i BTP prima della scadenza naturale.
E’ lecito chiedersi di che dimensioni siano questi rischi, che abbiamo etichettato come modesti perché perfettamente consapevoli che la loro entità verrà ridotta o ingigantita dall’opinione che se ne faranno i protagonisti concretamente operanti nel mercato, dato che, come recita l’unica vera legge riguardante il funzionamento dell’economia: “ciò che è creduto vero diventa vero se ci si comporta di conseguenza”. La nostra fiducia nel Paese e nella solidità dei suoi titoli sarà determinante se li acquisteremo, riducendo i nostri investimenti in carta finanziaria estera e attingendo ai depositi in conto corrente, dato che i titoli sono facilmente ritrasformabili in denaro.
Ci siamo resi conto a nostre spese di ciò che i Paesi poveri sapevano da tempo, e cioè quanto sia pericoloso avere un DEBITO PUBBLICO che sia anche soltanto in parte DEBITO ESTERO, trasformazione che nel caso nostro è avvenuta come un fatto naturale quando l’euro è divenuta la moneta dell’Italia ed è quindi cresciuto l’interesse degli investitori esteri per i nostri titoli.
Inoltre, avendo data la possibilità agli italiani di investire in carta finanziaria (obbligazioni e azioni) di emissione estera, ciò ha implicato un calo d’interesse degli italiani per i titoli nazionali al punto che da 326,7 miliardi di euro investiti in titoli pubblici italiani nel 1995 si è passati a 181,4 nel 2010: è ora di correre ai ripari.
Prendiamo – come esempio di titolo pubblico su cui riflettere per fare un oculato investimento e creare così una rendita per la propria famiglia – il BTP trentennale al 4,50% semestrale che, emesso l’1 novembre1993 a93,75 (invece che a 100), rende ai suoi sottoscrittori non il 9% ma il 9,60% annuo per tutti i 30 anni della sua vita, fino al rimborso dell’1 novembre 2023, indipendentemente dall’andamento dei tassi e da ogni altra variabile.
Pur essendo questo tipo di investimento in un titolo pubblico certo nelle sue premesse e sicuro nelle sue conclusioni, sono i tassi ai quali lo Stato si indebita durante la vita del BTP che possono influenzare il corso di ciascuno dei BTP in essere, e cioè il prezzo al quale può essere venduto e comprato nel mercato secondario dei titoli prima della data del rimborso a scadenza. Così, continuando nell’esempio, chi avesse voluto vendere questo BTP poco più di un anno dopo la sua emissione sarebbe incorso in gravi perdite in conto capitale.
Infatti, nella primavera del 1995, quando a causa dell’aumento dei tassi dovuto all’inflazione erano in circolazione BTP a 2-3 anni al 14,50%, il corso del BTP novembre 2023 al 9% era sceso a circa 77,80 procurando, a chi l’avesse comprato nel mercato secondario, una rendita dell’11,57% circa per i restanti 28 anni e più di vita del titolo, ma causando una perdita sostanziosa (circa il 17%) in conto capitale per chi l’avesse sottoscritto all’emissione e poi venduto dopo poco più di un anno.
Ma la situazione muta ancora, e radicalmente, in pochi anni e al 6 maggio 1998, sui 42 Buoni del Tesoro Poliennali in vita a quella data, vi erano 25 BTP con rendimenti compresi tra 9% e 12,50% e 17 BTP con rendimenti compresi tra 4,75% e 8,75%. Tenendo conto dei corsi ai quali tali titoli venivano scambiati, i tassi di rendimento erano più bassi di quelli nominali e così per esempio il BTP maggio 2003 al 4,75% era quotato 99,49 (il solo sotto la pari), mentre il BTP novembre 2023 al 9% era quotato 145,38 (il corso più elevato di tutti i 42 BTP perché a scadenza più lontana tra quelli a tasso di interesse elevato).
Al 6-1-2004 erano in vita nove BTP con rendimenti annui compresi tra l’8,50% e il 10,50% i cui corsi erano tutti sopra la pari e il più alto dei quali era sempre il BTP 1 novembre 2023 al 9% quotato quel giorno 151,15. Si noti che su questi andamenti non ha inciso il fatto che le emissioni fossero state denominate in lire fino al 1998 e poi dall’1-1-1999 anche in euro, e soltanto in euro dall’1-1-2002.
er completare l’esempio guardiamo infine alla situazione odierna, caratterizzata dai tassi modesti generati dall’avvento dell’euro che ha portato a un abbassamento generalizzato dei tassi di interesse.
Sui 63 BTP in essere al 12 gennaio 2012 (e 7 di questi BTP scadranno tra l’1 febbraio e il 15 dicembre 2012) ve ne sono 26 con rendimenti compresi tra l’1,85 e il 3,75%, 34 con rendimenti compresi tra il 4 e il 6,50% e soltanto tre titoli con rendimenti superiori: i BTP 2023 al 9% e all’8,50% e il BTP 2026 al 7,25%. Questi ultimi sono quotati sopra 100, mentre gli altri 60 BTP sono quasi tutti sotto la pari (salvo 9 quotati circa 100), con il risultato di dare, come per i BTP di nuova emissione, rendimenti lordi medi che si aggirano intorno al 7%.
Ciò significa che comprando 100mila euro nominali di questo BTP (quotato il 18 gennaio113,93 inchiusura) che richiede un investimento di 113.930 euro, si otterrebbe una rendita annua netta di 7.875 euro (9.000 euro lordi meno l’imposta cedolare secca del 12,50%) pari a 656 euro al mese fino al novembre 2023, quando si riceverebbe il rimborso di 100mila euro alla scadenza del BTP.
NOTE
Diamo allora inizio alla rettifica di pochi nomi – REDDITO o PIL e RICCHEZZA o PATRIMONIO o CAPITALE – ma oggi essenziali per la civile convivenza e perché siano evitati errori gravidi di conseguenze negative per la vita dei singoli e dei popoli.
Accade infatti spesso che, volendo parlare del REDDITO NAZIONALE (l’insieme dei redditi a qualsiasi titolo percepiti in un certo anno dai cittadini del sistema economico del Paese) o del PRODOTTO INTERNO LORDO (PIL, il valore della produzione di beni e servizi realizzati all’interno del Paese in un certo anno), venga spesso usata a torto la parola RICCHEZZA come se si trattasse di un sinonimo di REDDITO o PIL.
Il termine RICCHEZZA – sinonimo di PATRIMONIO o di CAPITALE – appartiene alla categoria dei concetti “fondo” e non può assolutamente essere considerato sinonimo di REDDITO o PIL, che appartengono invece al novero dei concetti “flusso”.
Il REDDITO o PIL non può che essere misurato in relazione al tempo trascorso; per questo quando si parla del PIL o del REDDITO NAZIONALE ci si riferisce a questa grandezza prodotta in un certo lasso di tempo, normalmente l’anno solare o fiscale.
A quanto ammontava il PATRIMONIO di Caio alle ore 12 del 18 gennaio 2012? E’ una domanda alla quale è possibile rispondere tenendo conto dei corsi dei titoli (azioni, obbligazioni, ecc.) posseduti da Caio e della stima del valore di mercato degli immobili e oggetti di valore che egli possedeva in quel momento. Nel caso Caio abbia dei debiti si dovrà sottrarne l’ammontare per avere il valore (stimato ai prezzi di mercato di quel momento) del suo PATRIMONIO al netto dei debiti.
Il debt service ratio o tasso del servizio del debito nasce da:
SERVIZIO DEL DEBITO diviso PIL moltiplicato per 100,
che ci dice quanto pesa in termini percentuali sul PIL la gestione del DEBITO PUBBLICO accumulato nel corso degli anni. Non sembra equo che vi siano Paesi dell’area euro gravati da un servizio del debito molto più oneroso di quello di altri Paesi della stessa area.
Gianni Fodella