Panfilo Gentile contro il suo tempo
“Gran parte dell’opinione pubblica non corrottasi respirando l’aria viziata dei partiti ritiene che in Italia la democrazia sia soltanto una finestra dipinta. Quando passo dinanzi a Montecitorio so che il parlamento è ancora un organo costituzionale superstite e formalmente non revocato, ma l’interferenza dei partiti lo rende prigioniero e lo degrada a semplice camera di registrazione. I segretari dei partiti nei loro conventicoli decidono e mandano. Il Parlamento deve mettere solo il sigillo. E’ il notaro dei partiti”.
Quando Panfilo Gentile scriveva queste cose, oggi talmente accertate da apparirci banali, la partitocrazia imperversava da non più di tre lustri. Non era, come oggi è, recidiva da poco meno di settant’anni (a far data dal Congresso di Bari, quando Vittorio Emanuele e Badoglio gestivano il Regno dall’umile prefettura di Brindisi). Però Panfilo Gentile aveva capito come si metteva. Nato all’Aquila nel 1889, era stato dissenziente dal regime fascista e già si trovava dissenziente da quello antifascista. Fece quel che poté in area liberale, scrisse sul ‘Corriere della Sera’ e dove altro accettavano i suoi articoli; nel ’52/53 diresse la ‘Nazione di Firenze; stese libri, tra cui questa “Polemica contro il mio tempo”, Volpe editore, Roma 1965, il cui cuore era il capitolo “La degenerazione oligarchica della democrazia”. Una degenerazione, secondo Panfilo Gentile come secondo Maurice Duverger (“Les partis politiques”, Parigi 1958), assolutamente fatale, e non solo in Italia, in Francia (ma De Gaulle qualche modesta correzione la farà con la Quinta repubblica), nella Spagna del dopo Franco. Osservava Panfilo: “Il regime democratico, secondo gli schemi degli scrittori politici di tipo giacobino, non è mai esistito e mai potrà esistere in nessun luogo. Se tra i nostri lettori vi è qualcuno che abbia studiato Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, saprà che la teoria delle élites ha dimostrato l’impossibilità storica dell’ideale democratico”.
Peraltro il Nostro non concepiva un’alternativa all’esistente: “Siamo semplici osservatori, non medici sociali. Ci basta associarci all’opinione assai diffusa che la nostra classe politica è un’oligarchia di mezze calzette”. Precisava che “i beneficiari dell’usurpazione costituzionale in realtà non sono i partiti ma i loro dirigenti, e le due cose non vanno identificate. I partiti sono insieme al Parlamento vittime dell’operazione para-totalitaria che stiamo descrivendo. Individui senza scrupoli cominciano col sottomettere un partito (…) restare poi al comando è un gioco da bambini: Nascono così tanti piccoli dittatori interni, i quali debbono solo mettersi d’accordo tra loro per tenere sottomesso il paese”. Chiesero a Chateaubriand se per avere successo in politica fossero necessarie molte qualità. P.Gentile sottolineava la risposta dell’autore del Génie du Christianisme: “Occorre piuttosto saper perdere le qualità. Infatti l’ascesa nel partito è riservata agli elementi più spregiudicati ed affetti da quella specie di paranoia che è propria di coloro che si dedicano al professionismo politico”.
Altra constatazione sconsolata del dimenticato pensatore aquilano: “Si attingono miliardi alle casse statali e parastatali per finanziare i partiti, per far uscire giornali passivi, per regalare sovvenzioni (…) Si ricordi per tutti il caso dell’Eni e l’accorata denuncia di don Surzo. Non meno di tre quotidiani di proprietà dello Stato sono a disposizione degli oligarchi”.
Lo storico fallimento di uno studioso dalla vista così acuta fu che fece solo l’osservatore. Non seppe progettare, né accorgersi del nuovo che fatalmente arriva: per esempio sono arrivati i computer e Internet. P.Gentile aveva ragione ad essere contro il suo tempo. Era un tempo senza idee che non fossero vecchie. Gli sarebbe servito il coraggio di rifiutare le soluzioni di un Ottocento prolungato, allora, fino a La Malfa, Taviani, Moro, Togliatti ed altri scopritori dello stantio pari ai nostri Franceschini, Scaiola, Vendola e simili. A Panfilo Gentile sarebbe servita la fantasia di riscoprire il passato remotissimo: il passato in cui Atene inventò ‘tutto’ della democrazia. Compresa la futura democrazia diretta/elettronica, allora chiamata agorà.
JJJ