GIOLITTI PENSO’ DI FONDARE LA REPUBBLICA?

Il 1° ottobre 1920 una testata francese autorevole, Journal des Débats,  pubblicò un articolo sensazionale firmato da   Auguste Gauvin, storico e corrispondente dall’Italia, secondo il quale “M.Giolitti a résolu de faire de la démagogie. Avant 1914 pendant sa longue dictature il a décomposé les forces morales du pays. Maintenant il s’attache à détruire l’organisation industrielle et la propriété (…) On va jusq’à dire, dans l’armèe surtout, que M.Giolitti médite de renverser la royauté et de se faire proclamer president de la République. Il n’a jamais caché son intention de prendre sur la Couronne sa revanche de mai 1915”.

E’ proprio vero, naturalmente, che Giolitti aveva ogni motivo per condannare l’operato della Corona nelle drammatiche giornate che determinarono il nostro intervento nella Grande Guerra. Re Vittorio Emanuele aveva respinto ogni tentativo di pace del maggiore governante italiano dopo Cavour, dello statista liberale che aveva chiuso l’era del liberalismo indifferente alle aspirazioni dei lavoratori. Giolitti voleva scongiurare la guerra e la Corte scelse la strada del bellicismo: quello torvo dei Salandra e dei Sonnino e quello lirico di d’Annunzio (rifiutare la guerra era riuscito invece ai governanti conservatori spagnoli, mentre Manuel Azagna e l’opposizione progressista avevano tentato di ingaggiare la Spagna a fianco dell’Intesa). Re Vittorio aveva anche respinto l’indicazione contro la guerra espressa dagli importanti gruppi politici che seguivano Giolitti. Il maggiore statista del tempo perdette la battaglia e fece la figura del nemico della grandezza nazionale. Nelle piazze si arrivò a gridare “A morte Giolitti”.

Passati cinque anni dal fatidico maggio 1915, la situazione dell’Italia improvvisatasi grande potenza per la ‘gloria di Vittorio Veneto’ (in realtà Austria e Germania avevano esaurito le ultime scorte per combattere, anzi per alimentarsi) stava precipitando: occupazione di fabbriche e di terre, violenze crescenti. Qualche storico sosterrà che Giolitti sopravvalutò la quasi-insurrezione socialista. Altri, all’opposto, che l’ex presidente del Consiglio cercava sia di scongiurare la guerra civile, sia di far emergere dalle cose che il movimento dei proletari, messo a gestire le fabbriche occupate e persino il Paese, non sarebbe stato all’altezza e avrebbe perso forza.

Fatto sta che Giolitti, tornato a presiedere il governo per la quinta volta il 15 giugno 1920, nel settembre successivo firmò il decreto che chiudeva l’agitazione dei metallurgici, culminata nell’estate coll’occupazione delle fabbriche a Torino. Il decreto istituiva una commissione di industriali e sindacalisti delegata a concordare la riorganizzazione delle industrie sulla base di una profetica partecipazione dei lavoratori  alla gestione delle aziende.

Auguste Gauvin, il corrispondente dei “Debats”, concluse che Giolitti aveva accettato l’esperimento dei consigli di fabbrica in modo avventato. Ma il vertice della Fiat aveva offerto di cedere la gestione della fabbrica ai lavoratori; essi non avevano accettato. In quei frangenti Giolitti aveva teorizzato che il movimento sindacale avrebbe attenuato le posizioni massimalistiche se fosse stato realmente coinvolto nelle sorti delle imprese. Questa linea aggravò il risentimento dei moderati, anche in Francia. Del resto il ritorno al potere di Giolitti, dopo sei anni, era stato preceduto da quel famoso discorso di Dronero nel quale lo statista aveva fatto il bilancio della sua azione politica e delineato il programma del suo prossimo governo. Tra le affermazioni che a destra apparvero infauste: ‘se non sarà all’altezza delle sue responsabilità, la borghesia sarà travolta’.  Per qualche piccolo gruppo liberale, questa valutazione implicava sbarazzarsi della monarchia. La proposta giolittiana di una grande inchiesta parlamentare sulle origini e responsabilità del conflitto era apparsa una dichiarazione di guerra al trono .

Il ritorno politico di Giolitti, a 78 anni, non fu fortunato: troppo grave la situazione per le formule che in passato gli avevano dato tanto successo, facendolo ‘dittatore parlamentare’. Si dimise a fine giugno 1921, e negli ultimi sette anni di vita non svolse più un ruolo alla sua altezza. La voce di un suo progetto repubblicano si spense. Forse era infondata, però non assurda: troppo gravi le responsabilità della monarchia  per una guerra tremenda che all’Italia  non aveva dato nulla più di quanto Giolitti aveva garantito  prima del 24 maggio 1915, avendo negoziato con gli emissari di Vienna e di Berlino. Insomma, da come le cose sarebbero andate, Vittorio Emanuele avrebbe potuto essere deposto ventiquattro anni prima. Chissà come sarebbe stata la nostra storia. Forse non avremmo avuto il fascismo. Meglio ancora, non avremmo avuto l’antifascismo.

A.M.C.