BISOGNA FARE GLI ITALIANI, IN FRETTA

La lezione del centocinquantenario

COME E COSA CAMBIARE PERCHE’ QUALCOSA CAMBI

Fatta l’Italia restano da fare gli italiani. C’è quasi da vergognarsi a citare la celeberrima tra le massime del Massimo D’Azeglio, come dicevano alcuni miei antenati un po’ faceti; è infatti da sempre sulle bocche di tutti. Eppure non si riesce ad esimersene, per la buona ragione che a fare gli italiani, nell’unico significato plausibile dell’espressione, nessuno ci ha mai provato. Con una sola eccezione, forse: quella di Mussolini, che non mancò di prefiggersi l’ambizioso obiettivo ma lo perseguì a modo suo, mascherando i semi-neonati da figli della lupa, armando i più grandicelli balilla di libro e moschetto e obbligando i gerarchi con pancetta a saltare attraverso cerchi infuocati. Il tutto con i risultati ben noti.

Sarebbe perciò ora di finalmente provarci, visto che in un secolo e mezzo le cose non sono gran che cambiate. Anzi, per la precisione, moltissime cose sono cambiate in meglio, ma molte, troppe e soprattutto assai gravi, sono cambiate in peggio. Contribuendo per di più, in una misura della quale i più non sembrano o fingono di non rendersi conto, a determinare una situazione di emergenza, quella attuale, con pochi precedenti storici, come abbiamo cercato di dimostrare nei precedenti articoli (vedi parte Iparte IIparte III,parte IV parte Vparte VI e parte VII)di questa serie che ora andiamo a concludere.

Chi potrebbe infatti negare, se messo alle strette, che il rischio di default nazionale molto probabilmente non incomberebbe o potrebbe essere sventato molto più facilmente se il paese non fosse afflitto più che mai dall’evasione fiscale di massa e dall’economia sommersa, dalla corruzione dilagante e dalla criminalità organizzata? Tutte piaghe, queste, il cui enorme costo per lo Stato e per la comunità nazionale è stato evidenziato da stime più o meno approssimative alle quali viene generalmente attribuita una sufficiente attendibilità.

E quel “più che mai” non ci è sfuggito distrattamente dalla tastiera. Mentre Mario Monti e la sua squadra di tecnici, ridicolmente accusati di lentezza, sono impegnati a portare avanti un programma di misure sufficientemente meditate, coerenti e sperabilmente eque, al tirare delle somme, nella distribuzione dei sacrifici per salvare conti pubblici e banche, rilanciare una crescita che langue da lunghi anni o almeno scongiurare una recessione che potrebbe rivelarsi micidiale o addirittura letale, cosa ci dicono le cronache?

Ci dicono, spietate, che le mafie spadroneggianti del Mezzogiorno imperversano ormai anche nella capitale ufficiale (dove cresce altresì la criminalità spicciola) e dintorni dopo avere piantato le tende intorno all’ex capitale morale già ribattezzata Tangentopoli. Che nelle poche grandi imprese parastatali e private che ci rimangono persistono ad imperversare la corruzione attiva e passiva e pratiche illecite di ogni tipo, si continua imperterriti a foraggiare partiti e amministratori pubblici centrali e locali come se Mani pulite fosse stata solo uno scherzo di cattivo gusto, e grandi manager inetti, irresponsabili o semplicemente disonesti vengono regolarmente premiati con liquidazioni astronomiche.

Quanto poi all’evasione fiscale, che naturalmente si intreccia abbondantemente con la criminalità e la corruzione ma è altrettanto largamente praticata anche indipendentemente da esse, pare che da qualche tempo venga combattuta con maggior vigore e che nuovi strumenti utili al riguardo siano in via di adozione da parte del governo “tecnico”. Intanto però si deve constatare che in altri paesi più virtuosi del nostro i controlli sono di regola più rigorosi e sistematici, la penalizzazione anche detentiva degli evasori non infrequente e così pure le loro denunce da parte dei cittadini.

Da noi, invece, l’ex capo del governo e i suoi seguaci bollano la ventilata tracciabilità dei pagamenti come un sopruso da Stato di polizia, mentre un numero certamente molto elevato di potenziali contribuenti è pronto a trasferire i propri capitali in qualche paradiso offshore, quando non l’abbia già fatto, nell’eventuale imminenza di misure più drastiche. Il tutto, fra l’altro, rendendo stupefacente il candore con cui tanti sottoscrivono o caldeggiano misure fiscali di emergenza quali l’imposizione della patrimoniale o il ripristino dell’ICI sulla prima casa ma solo a partire da un certo livello di reddito e in forma progressiva. Perfetto, ovviamente, in linea teorica; peccato che, in pratica, il garzone del macellaio, l’assistente del medico privato e il cuoco di ristorante rischierebbero molto, per i ben noti motivi, di pagare più del rispettivo datore di lavoro se non addirittura di pagare solo loro, come avviene su vasta scala per l’IRPEF.

E’ giusto incolpare di tutto ciò solo la classe politica? I più continuano a farlo anche col favore del linguaggio corrente, poichè termini come appunto classe e tanto più casta possono accreditare il concetto che si tratti di un personale in qualche modo separato o distinguibile dal resto del paese. Così evidentemente non è, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, e bisognerebbe quindi trarne le debite conseguenze sia in sede di attribuzione delle responsabilità sia di proposizione dei rimedi più opportuni.

Le colpe dei politici sono incontrovertibili, ma pur ammettendo (senza concederlo) che la maggior parte di loro anelino non solo a gestire il meglio possibile la cosa pubblica ma anche, dichiaratamente o meno, a “fare gli italiani”, questa ipotetica maggioranza deve fare pur sempre i conti con una maggioranza o una forte ed agguerrita minoranza di non politici, ossia di comuni cittadini, scarsamente disposti a lasciarsi fare o rifare e forse congenitamente incorreggibili, secondo teorie o credenze in voga da tempo immemorabile. Tra di esse non manca, per contro, quella secondo cui a impegnarsi in politica sarebbero i cittadini peggiori, che ci permettiamo però di non sottoscrivere su due piedi se non altro per simmetria con l’altra ipotesi suddetta.

Non è comunque il caso di scervellarsi per assodare se gli italiani siano davvero incurabilmente individualisti ovvero anarchici per principio o non piuttosto refrattari per natura a qualsiasi disciplina, e/o litigiosi e incostanti, maleducati e cinici, frivoli e faciloni, ecc; e tanto meno, se davvero sono tutto ciò o una parte di ciò, perché lo siano. Certo è che le loro pecche non riguardano soltanto i rapporti tra cittadino e Stato ma anche quelli tra i cittadini stessi. In sintesi complessiva è lecito, senza pretesa di originalità, parlare di carente senso civico, riscontrabile sui piani più diversi e nelle forme più macroscopiche e deleterie come in quelle apparentemente meno nocive e al limite poco più che folcloristiche.

Il che sia detto, lo ripetiamo, non ignorando affatto i pregi della gens italica, che sono tanti compresi quelli tradizionalmente negati da luoghi comuni tuttora tenacemente diffusi soprattutto all’estero. Di recente un giornalista americano, congedandosi dopo anni dal paese, ha reso omaggio non solo al “vibrante istinto creativo” del suo popolo (oggi, per la verità, piuttosto appannato) ma anche, “cosa forse sorprendente per molti stranieri”, alla sua “prodigiosa etica del lavoro”, lamentando però che “le doti di fantasia e le giornate lavorative di 12 ore finiscono spesso col portare all’immobilismo”. Per produrre progresso, infatti, l’etica del lavoro o se si preferisce professionale, per quanto abbinata alla creatività, deve trascendere la sfera individuale diventando etica anche civica e sociale.

Un’etica degna di questo nome, in altri termini, deve esplicarsi a tutto campo. E’ probabile che il lavoro nobiliti l’uomo ma è certo che cessa di farlo se, ad esempio, l’imprenditore che lavora anche più di 12 ore quotidiane non applica le norme sulla sicurezza del lavoro e ritiene giusto evadere le tasse. E’ vero tuttavia che gli evasori, o almeno quelli non tali per principio, possono sentirsi in qualche modo giustificati (e anche qui non manca il nesso con la problematica più attuale) se lo Stato esattore si dimostra incapace o restìo a combattere seriamente l’evasione e nel contempo colpisce duramente i contribuenti in regola spendendo inoltre in modo dissennato, se non peggio, il loro denaro. Ciò non basta a rendere la giustificazione accettabile, ma serve ugualmente a richiamare l’attenzione su un nodo a prima vista cruciale della questione: il frequente palleggiamento delle responsabilità tra governanti e governati. Nodo però solubile, come si è detto, respingendo la distinzione tra le due parti per quanto qui ci interessa.

L’evasione fiscale, naturalmente, è solo una delle componenti sia pure più appariscenti, dibattute e oggettivamente importanti di un quadro assai ampio. Altre apparentemente minori non sono però meno significative. Si pensi al traffico automobilistico dentro e fuori delle nostre città. Qualcuno avrà ben notato che i veicoli in circolazione si dividono in tre categorie di dimensioni all’incirca uguali: quelli che rispettano l’obbligo tuttora vigente (per quanto ne sappiamo, ma già questo dubbio è eloquente) di tenere accesi giorno e notte luci di posizione e anabbaglianti; quelli che ritengono sufficiente un rispetto parziale tenendo accese solo le prime, e quelli che viaggiano a luci completamente spente anche in caso di nebbia, tempo piovoso e tenebre già calanti.

Il tutto impunemente e quindi nella presumibile convinzione che tutto sia più o meno lecito, di fatto se non di diritto, nonché con conseguente discredito delle norme in generale e non senza analogie, ad esempio, con quelle concernenti il finanziamento pubblico dei partiti. Sempre in tema di traffico, qualcuno avrà altresì notato che in autostrada quasi nessuno più segnala il passaggio sulla corsia di sorpasso, chissà se contando militarmente sul fattore sorpresa, un’ipotesi valida anche per la caduta in disuso pressocchè totale del clacson.

La sostanziale scomparsa della polizia stradale potrebbe far pensare ad una scelta strategica delle autorità competenti, apparentemente indifferenti ai primati nazionali in materia di incidenti ma in compenso ostinate nell’imporre o tollerare limiti di velocità spessissimo assurdamente bassi e semi-impraticabili e quindi, forse, considerati utili solo per consentire ai comuni di fare periodicamente cassa e a fini di eventuale risarcimento danni (che assicura miglioramenti contabili del PIL), al pari di quelli invece elevati ma altrettanto sistematicamente violati. Per fortuna qualcuno comincia ad imparare a fermarsi alle striscie pedonali, almeno quando viaggia a velocità moderata.

Le pubbliche strade, e piazze, tornano poi a proposito anche per un altro motivo. Quelle di Milano soffrono di cronica e multiforme sporcizia per la quale, secondo un articolo apparso un mese fa sul Corriere della sera a firma Andrea Bosco, “le responsabilità dell’amministrazione vanno di pari passo con l’indifferenza, la maleducazione, la mancanza di senso civico dei cittadini” (compresi tra l’altro i cosiddetti writers, nella cui produzione “la creatività è stata sostituita dallo scarabocchio”). Quanto alle strade extraurbane, lombarde e naturalmente non solo, chiunque può contemplare i loro bordi pullulanti di rifiuti di ogni genere, che contribuiscono a creare uno stridente quanto significativo contrasto con la pulizia spesso maniacale delle abitazioni private, per cui quelle italiane generalmente brillano al confronto anche con i maggiori paesi europei.

Passando a tutt’altro, ma sempre nello stesso discorso, annotiamo che Sergio Romano, ancora dalle pagine del Corriere, ha ricordato recentemente un pregio della scuola secondaria americana, per il resto (escluso forse lo sport), alquanto scadente come emerge anche dalle graduatorie PISA, peraltro ancora più severe nei confronti della scuola italiana. Si tratta della capacità che gli studenti vi acquisiscono, grazie ad un’assidua pratica, di dibattere in modo pacato, ordinato e approfondito su qualsiasi tema, mettendo a confronto anche serrato diverse opinioni e tesi. Di qui l’ascoltabilità e la presumibile costruttività dei dibattiti politici in TV o altrove, benché sembri che al riguardo le cose stiano peggiorando anche negli USA, forse sotto i colpi della crisi economica. Ma certo i talk-show d’oltre oceano non sono precipitati al livello attuale di quelli italiani, ridotti a indecorose gazzarre che vedono gareggiare in intemperanza e aggressività spesso volgari anche personaggi fino a ieri noti per i loro modi urbani. Si è arrivati così al punto che un esperto di TV come Aldo Grasso auspica l’esclusione dei politici da simili tenzoni, passando persino sopra al fatto che, a quanto purtroppo risulta, esse fanno audience.

Di scuola si deve comunque riparlare arrivando al cuore del problema. Appare chiaro, almeno al sotto- o soprascritto, che il quadro fin qui tracciato influisce in modo pesante, e al limite determinante, sul livello di governabilità del paese, fortemente abbassato non solo dalla precarietà dello Stato di diritto ma anche dalla carenza di una società civile in grado di sopperire alle inadempienze della classe dirigente. Come rimediare ad un inconveniente così grave? Massimo Calderazzi ha ragione di negare che non basta fare quadrato intorno alla bandiera della Costituzione per raddrizzare un sistema politico non funzionale, anche se, in attesa di cure più radicali, non è possibile rinunciare alla funzione regolatrice, nei limiti del possibile, di una legge fondamentale pur bisognosa di modifiche e aggiornamenti, a meno di non puntare al tanto peggio tanto meglio.

Caldeggiare cure più radicali, tuttavia, non significa necessariamente voler buttare tutto all’aria, ma neppure confidare ulteriormente in espedienti di ingegneria istituzionale ancorchè rivoluzionari la cui efficacia dipende pur sempre da chi è chiamato ad applicarli, ossia dal fattore umano, risollevando insomma una volta di più il proverbiale problema del difetto nel manico. In un paese come l’Italia, mi pare, l’introduzione della democrazia elettronica e a sorteggio proposta da Massimo rischierebbe, a dire il meno, di fare la stessa fine del sistema bipolare e di questa o quella legge elettorale. Per non parlare poi, sempre sulla base delle esperienze già fatte, dell’opportunità di ricorrere a qualche “uomo forte” per imporre al malato la ricetta miracolosa.

Optare per cure radicali significa, piuttosto, puntare proprio sulla radice del male, quella additata per primo da un altro Massimo, non D’Alema bensì il marchese D’Azeglio, anche se in tal caso l’inesistenza di toccasana ad effetto immediato può scoraggiare i più impazienti. Non si tratterebbe infatti di imitare esempi storicamente recenti di operazioni relativamente rapide e più o meno drastiche, quanto tragicamente fallimentari. Il tentativo di Stalin di forgiare con l’aiuto di svariati bagni di sangue il nuovo uomo sovietico, genialmente irriso da Michail Bulgakov nel suo esilarante, malgrado tutto, “Cuore di cane”, culminò nella catastrofe anche morale dello Stato nato nel 1917, ed esiti analoghi ebbero la Rivoluzione culturale cinese e il genocidio perpetrato dai Khmer rossi in Cambogia.

L’obiettivo da perseguire, invece, con la necessaria gradualità, continuità di impegno e l’investimento di adeguate risorse sia umane che materiali, è quello di migliorare la qualità culturale e comportamentale della popolazione, oggi per vari aspetti in regresso a cominciare dall’analfabetismo di ritorno. Con particolare riguardo, comunque, all’innalzamento del livello di coscienza e responsabilità sociale e di senso civico, al di fuori possibilmente di qualsiasi ideologia e mirando semmai ad una specifica accentuazione della capacità di confrontarsi con culture diverse dalla propria, peraltro bisognosa di rafforzamento e riscoperta.

Un compito educativo o rieducativo, dunque, ambizioso e complesso quanto indispensabile per assicurare una governabilità finora cronicamente precaria promuovendo la maturazione di una società civile all’altezza delle moderne esigenze e valorizzando le migliori tradizioni, vocazioni e potenzialità del paese. Un compito, naturalmente, che spetta innanzitutto, ma non solo, alla scuola, per quanto bisognosa anch’essa di riqualificazione e potenziamento, e quindi di una decisa  inversione di rotta nella politica nazionale più recente, che non a caso contrasta in modo stridente con le tendenze negli altri paesi più avanzati e alle prese con difficoltà economiche simili alle nostre.

Un compito, inutile dirlo, il cui svolgimento in campo scolastico richiede che si vada ben oltre lo spazio, la cura e il peso didattico ridicolmente esigui sinora riservati all’educazione civica, perciò comprensibilmente trattata dagli studenti, dalle famiglie e dagli stessi insegnanti persino peggio delle ore di religione di un tempo e dell’educazione fisica. La funzione comunque insostituibile della scuola a tutti i suoi livelli dovrebbe però essere integrata da specifiche iniziative della società civile attraverso nuove forme di volontariato impegnate in un’inedita missione nazionale di ampio respiro.

Un’impresa paragonabile, insomma, mutatis mutandis, a quella inscenata nel 19° secolo dai populisti russi nell’impero zarista per risvegliare e riscattare le masse contadine dalla loro ancestrale deprivazione e arretratezza. Oppure, per citare un altro esempio meno noto, ad un progetto a malapena avviato da Maria Montessori, profetessa poco fortunata in patria ma ancor oggi ascoltata e attivamente celebrata all’estero: quello di educare gli uomini fin da piccoli a battersi per la pace dopo la traumatica esperienza della prima guerra mondiale con le sue innumerevoli e insensate carneficine.

Due secoli fa il grande Schopenhauer interpretava una nozione alquanto diffusa all’estero definendo gli italiani gente “al di sopra di qualsiasi ambizione, al di sotto di ogni bassezza”. Meno pessimista e sbrigativo del collega (che peraltro diceva peste e corna pure di lui, neanche fosse italiano), un altro colosso del pensiero non solo teutonico come Hegel, dopo avere banalmente attribuito agli italiani un connaturato e incoercibile individualismo, ammetteva che avessero “superato l’egoismo più mostruoso, degenerato in tutti i crimini” grazie al “godimento delle arti belle, trovandovi per così dire un’unità” limitata però “solo alla bellezza, non già alla razionalità, all’unità superiore del pensiero”. E così concludeva: “gli italiani sono nature improvvisatrici, in tutto dedite all’arte e al godimento sensibile. In presenza di tale indole artistica, lo Stato deve per forza essere qualcosa di casuale”.

Dopo avere bene o male smentito il poeta francese che ci definiva “paese dei morti”, sarebbe forse ora che, passati altri 150 e più anni, si rendesse obsoleta anche l’immagine dipinta dal filosofo tedesco. Ciò, ovviamente, per quanto riguarda la sua componente negativa, perché quella positiva andrebbe possibilmente conservata, nella realtà, ancorché adeguatamente contemperata. E non è certo scontato che uno sforzo di ulteriore automiglioramento comunque da farsi debba necessariamente impedirlo.

Franco Soglian