Il volontariato caritatevole dei grandi numeri, non solo delle élites, è per consenso generale il fenomeno dell’ultimo cinquantennio: al di là delle apparenze, una novità dirompente come e più che l’avvento del computer, dei voli low cost e delle energie rinnovabili. Io conosco da vicino un angolo di volontariato a Milano, una mensa di francescani, periferia Sud. Anni fa essa era in due stanzoni del convento di S.Angelo. Ma si trovava in uno dei quartieri più costosi della metropoli; gli stanzoni e i suoi avventori distavano pochi passi da uno dei massimi palazzi dello Stato Maggiore bancario, coi suoi generali e colonnelli della finanza. I condomini di gamma alta che incombevano sulla mensa avevano lottato decenni per liberarsi dei pezzenti che la mensa sfamava. I pezzenti erano brutti, vociavano, rissavano, disseminavano cartacce oleose prima e dopo i pasti, urinavano e peggio. Alla fine la mensa traslocò lontano, nell’ex-edificio scolastico che un volitivo ed efficiente padre Clemente aveva saputo ottenere e ristrutturare.
Oggi la mensa serve due-trecento poveri per pasto, due volte al giorno, tutti i giorni dell’anno. Gli ambienti sono accoglienti, pieni di luce. Al piano superiore dormono giovani, immigrati o no, e persone che la risacca della vita deposita ai margini della grande città: quasi sapendo, la risacca, che ci sono i frati e ci sono i volontari ad accogliere, ad aiutare come possono.
Lo spirito samaritano soffia dovunque sulla cristianità e su tutte le religioni. Fuori di questo ecumene di persone che credono, o si struggono per non riuscire a credere, non risulta un granché di filantropia, né atea né agnostica. Soprattutto non sembra esistere un volontariato operoso, di pane indumenti e piccole cose, tra i teorici e i militanti del sinistrismo sia rispettabile sia antagonista, essi che si vantano compagni di lotta degli ultimi e dei reietti (invece sono a fianco dei sindacalizzati iperprotetti o degli aspiranti alla protezione).
Essi, i militanti e i teorici, vanno a cortei convegni girotondi e sit-in, troppo protagonisti e troppo attivisti per pulire i tavoli alle mense e prodigarsi ai dormitori, alle stazioni ferroviarie, ai marciapiedi dove dormono i barboni. La fraternità delle cose umili, cioè vere, non si addice ai rigorosamente laici e ai commissari ideologici delle lotte. La carità, anzi, la stigmatizzano. Vogliono ben altro, vogliono capovolgere il mondo pur essendo certi d’esserne incapaci. In attesa di capovolgere, o meglio di analizzare e denunciare, si alzano tardi la mattina e nei bar e ristoranti non fanno rinuncie. Il cilicio e i fioretti non sono per loro, rivoluzionari di abitudini ceto medio. Nel preparare l’apoteosi proletaria non si avvicinano troppo ai proletari senza bidet e senza dopobarba.
La mensa che conosco, a via Saponaro, è fatta essenzialmente di un frate, sostenuto dal suo convento, e di un drappello di volontari. Prevalgono i pensionati, modesti o di qualche livello, che rinunciano alla bocciofila o alle passeggiate in collina; e prevalgono le casalinghe con laurea, o che hanno viaggiato e sanno rivolgersi in inglese agli immigrati; qualcuna potrebbe servire minestre con la chevalière ma signorilmente non lo fa; qualcuna ha un marito ex-manager che non fa fatica a passare 100 euro al frate. All’occorrenza, quando gli telefonano che un volontario ha il dentista, l’altra deve gestire i nipotini, l’altra ancora coll’influenza, il marito ex-manager indossa il grembiale e dà una mano al banco della mensa. Un tempo i samaritani lavavano i piatti oltre a riempirli di pasta; ora che ci sono le grosse lavatrici allestiscono bicchieri, posate e stoviglie di plastica, servono risotti e frutta, nettano vassoi e tavoli degli avanzi sgradevoli dei pasti.
I volontari mettono anche da vent’anni ininterrotti l’abnegazione ostinata, due o tre volte alla settimana; fanno chilometri di città e di periferia perché la mensa non chiuda. Ci sono quelli che rispondono immancabilmente sì ad ogni richiesta di accorrere fuori turno. Il frate assilla le autorità e i benefattori. Un suo fiduciario organizza tutto come il nostromo di una nave. Un immigrato ventennale dal Maghreb batte ogni giorno supermercati panifici fabbrichette di buondì per raccogliere partite piccole o grosse di alimentari e qualsiasi altro donativo. Uno che ha espiato duramente in carcere si incarica di imporre disciplina ai riottosi.
Non sembrerebbe, ma il volontariato non è fatto solo di idealisti e di dame di carità. E’ fatto anche di poco sentimentali esercenti, dirigenti e professionisti che hanno compassione dei poveri e stima per chi si adopera gratis. Perciò, per esempio, quei negozianti e manager donano a furgoni interi viveri, magari prossimi a scadere di validità legale e peraltro perfettamente commestibili. Medici e avvocati aiutano in altri modi.
Il volontariato è questo, un intenso convergere di bontà, chiamiamole col loro nome deamicisiano. Bontà non solo di settantenni con l’artrite, di donne che antepongono gli altri a mariti e a nipoti, di gente valida che lavora per aiutare non per guadagnare. Altruisti cui non basta la sola mensa ma aggiungono questa o quella charity. Bontà anche di non pochi giovani i quali trascurano le occasioni e le piacevolezze di un’età che, come l’acqua del fiume, passa e non torna più. Il volontariato, insomma, è tutta la generosità di cui noi, i più, non siamo capaci.
‘I too have a dream’: che un giorno le nostre società trarranno le conseguenze di questa immensa scoperta del volontariato, scoperta che tanti sono migliori di quel che credevamo, per stanchezza o per sfiducia. Esiste un’umanità che non conoscevamo buona. E’ una scoperta che dovrebbe cambiarci la vita. Un giorno forse prenderemo decisioni ardite. Per dirne una, affideremo a quelli del volontariato di amministrare loro, direttamente, buona parte della cosa pubblica. La cosa pubblica va tolta ai politici, dei quali sappiamo con certezza assoluta che rubano, frodano, malversano, nella più benevola delle ipotesi agiscono in funzione della carriera propria e dei parenti. Degli uomini e delle donne del volontariato sappiamo, con ancora più certezza, che vivono per dare, non per prendere.
Un giorno andrà creato un elenco di chi avrà fatto volontariato per, diciamo, due-tre anni. E da quell’elenco estrarremo a sorte un ruolo più ristretto di Benemeriti dal quale trarre, secondo le capacità e disponibilità, i più tra gli amministratori e i rappresentanti. Per un mandato breve, non a vita come accade attraverso il congegno della truffa elettorale. Da come sono fatti quelli del volontariato, potremo non pagarli. Oppure pagarli francescanamente. Quanti piccioni prenderemo con una sola fava!
JJJ