Il bilancio che abbiamo provato a tracciare dell’Italia centocinquantenne (vedi parte I, parte II, parte III,parte IV , parte V e parte VI) si presta alle più diverse valutazioni a seconda dei diversi possibili angoli visuali. Nel complesso, non crediamo tuttavia che possa considerarsi soddisfacente e in ogni caso, allo stato attuale, abbastanza rassicurante per il futuro. Il paese non è certo da buttare ma le sue pecche e carenze sono innumerevoli, gravi e, nella migliore delle ipotesi, almeno pari ai suoi pregi e potenzialità. Forte sarebbe la tentazione di definirlo malato incurabile, data appunto la sua avanzata età statuale, se non fosse che mai è stato sottoposto, o ci sbagliamo?, a terapie adeguate.
Proprio su quest’ultimo punto, d’altronde, si accentra il discorso che più ci interessa, da portare avanti e poi finalmente concludere senza allargarlo troppo. Quale che sia l’esito di un attendibile checkup nazionale, sembra comunque lecito ribadire e partire dal presupposto che il paese assai raramente sia stato governato in modo sufficientemente oculato, responsabile e lungimirante. Che ciò possa derivare anche da difetti più meno connaturati o storicamente generati del popolo italiano, lo abbiamo già rilevato. Certamente influenti sull’insolvenza delle sue classi dirigenti, non possono essere ignorati neppure in sede di esame dei possibili rimedi alle loro conseguenze.
Guvernè bin, come diceva Giolitti, uno dei migliori o dei meno peggio, non significa soltanto amministrare il paese “con la diligenza del buon padre di famiglia”, secondo una vecchia e consacrata formula. Significa anche, all’occorrenza, andare ben oltre l’ordinaria amministrazione fronteggiando con coraggio le emergenze più critiche, perseguendo con tenacia la soluzione dei maggiori problemi di fondo, sfidando se necessario l’impopolarità e le eventuali resistenze. Tutto ciò è troppo spesso mancato, come ad esempio, in modo particolarmente vistoso, all’indomani della prima guerra mondiale e nel momento cruciale della seconda, e in generale nei confronti della corruzione, della criminalità organizzata e dell’evasione fiscale.
Quanto all’impopolarità, l’ultimo della lunga serie di nostri presidenti del Consiglio, non contento di esprimere comprensione per gli evasori, benché campione dichiarato ed esaltato della liberalizzazione ha confessato di non poter mantenere le promesse al riguardo per timore di perdere i consensi delle categorie interessate. L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt, oggi novantenne, rivela invece di essersi trovato pronto a dimettersi in almeno tre occasioni se non fosse riuscito ad imporsi su questioni ritenute vitali, nel presupposto che “un capo di governo deve sempre accettare il rischio di venire deposto”. E il generale de Gaulle, com’è noto, si ritirò a vita privata dopo la bocciatura per referendum della regionalizzazione della Francia da lui propugnata.
Nell’Italia prefascista le dimissioni dei governanti non erano una rarità; qualcuno persino eccedeva. Sono diventate estremamente rare negli ultimi tempi, che hanno visto casi addirittura madornali di attaccamento alla poltrona per nulla nobilitato da lotte ad oltranza per cause sacrosante, o almeno apprezzabili, ma incomprese. Quella di Massimo D’Alema, fattosi da parte dopo un’imprevista sconfitta in elezioni regionali, è rimasta un’eccezione. Silvio Berlusconi compie il suo “passo indietro” solo dopo una lunga e pervicace resistenza, ancora convinto di rappresentare il più grande statista della storia nazionale, godere un alto prestigio all’estero e cadere vittima del tradimento, esattamente come lamentava dopo il 25 luglio 1943 Benito Mussolini. Dal quale (qualcosa bisogna pure riconoscergli) il più recente ”uomo della provvidenza” si distingue almeno per avere rispettato, malgrado una certa disinvoltura interpretativa, le regole democratiche, a dispetto delle mire autoritarie addebitategli dagli avversari.
Frattanto, ha assunto dimensioni massicce e le forme più smaccate la moltiplicazione dei privilegi e delle prebende della classe politica in generale, l’ormai famigerata “casta”, in stridente contrasto con le ripercussioni della crisi economico-finanziaria sui redditi del grosso della popolazione e al punto da dare corpo all’immagine di una vera e propria deriva cleptocratica. Si è così giunti al più sconcertante tra i tanti primati negativi via via accumulati dal paese: i politici ed amministratori più pagati e tuttavia più inetti, e fors’anche più corrotti, dell’Occidente.
La crisi che fa incombere sull’ottava potenza economica mondiale lo spettro del default, avendo messo finora al tappeto solo la piccola e ben più povera Grecia, ha messo tanto più a nudo l’irresponsabile imprevidenza e insipienza dei suoi governanti, non a caso trattati come inaffidabili e al limite minorati dai loro colleghi dell’Eurozona. I quali, sempre più preoccupati per la sorte della moneta comune, si sono visti infine costretti, insieme alle autorità di Bruxelles e Francoforte, a porre sotto umiliante tutela quelle di Roma per di più bersagliandole con una escalation di ultimatum.
Tutto ciò ha ulteriormente accentuato ed esasperato l’anomalia del caso italiano, di una nazione, cioè, appartenente per censo e lignaggio all’élite planetaria ma sempre afflitta da squilibri e piaghe secolari, da cronica inefficienza e instabilità politica e ora anche dall’inedita prospettiva del declino e del regresso. Si spiega, perciò, che da un lato abbia preso piede, in un paese che fino a poco tempo fa vantava livelli tra i più elevati di partecipazione al voto, la tendenza ad un crescente astensionismo e siano ricomparsi movimenti di tipo qualunquistico. E che, dall’altro, non manchino proposte di rinnovamento radicale di un sistema politico comprensibilmente giudicato non all’altezza di un compito che rimane comunque insostituibile.
L’amico Massimo Calderazzi e anche Gianni Fodella caldeggiano su questa rivista nientemeno che il rimpiazzo della democrazia rappresentativa, imperniata su parlamento e partiti, con un governo di tecnici eletti a rotazione da un consesso di cittadini selezionati periodicamente mediante sorteggio e con sistematico ricorso a referendum popolari per via elettronica, rispolverando così un antico modello ateniese debitamente aggiornato. L’idea è meno peregrina ovvero avveniristica di quanto possa apparire a prima vista. Qualcosa del genere è stato infatti già sperimentato in sede locale o regionale negli Stati Uniti e addirittura nella Cina ancora ufficialmente comunista, e magari si arriverà a realizzarla su scala più o meno vasta in un futuro non necessariamente lontano.
Essa solleva però due obbiezioni, pur prescindendo da un’analisi politologica che richiederebbe una specifica competenza. Entrambe riguardano specificamente proprio il caso italiano con la sua conclamata anomalia. Perché pensare, innanzitutto, a soluzioni così rivoluzionarie, ad una fuga in avanti così difficile da concepire in un paese che non brilla più da secoli per spirito innovativo e il cui unico esempio dato sinora agli altri e da non pochi altri effettivamente seguito, con i ben noti risultati, è stato quello di un regime fascista?
Nauseato per l’attuale condizione nazionale e affascinato dal modello Pericle, Massimo non esita ad auspicare la sua introduzione, se necessario, mediante un colpo di Stato e una dittatura ad hoc. Chi si sentirebbe di sottoscrivere data l’esperienza già fatta in materia? Qualcuno, oltre a tutto, ha ricordato nei giorni scorsi che anche il precedente ateniese non suona particolarmente incoraggiante in quanto il governo illuminato di Pericle spianò la strada alle molteplici malefatte del suo allievo Alcibiade, del resto guerrafondaio come il celebrato cugino.
Ma guardiamo all’oggi. Da quando è nata, o se si preferisce risorta, l’Italia si crede pari se non addirittura migliore degli altri maggiori Stati europei, indipendentemente dalla loro età per i più ben più avanzata; e anzi, per la precisione, dei più forti e progrediti tra essi. Se ciò avviene, diciamo, a livello ideale o retorico, a livello pratico sono questi paesi i nostri termini di riferimento abituali ed è ad essi (naturalmente con la più recente quanto ingombrante aggiunta degli Stati Uniti) che ci sforziamo più o meno alacremente e coerentemente di assomigliare. D’altra parte, tutti hanno avuto, hanno tuttora e continueranno ad avere i loro problemi, le loro crisi e le loro pecche. Nessuno, però, è gravato da trascorsi complessivamente paragonabili a quelli italiani, come abbiamo già cercato di chiarire; e, soprattutto, nessuno versa oggi in una situazione generale, di immagine e di sostanza, in termini quantitativi e qualitativi, anche soltanto avvicinabile a quella italiana.
Non mancano ovviamente punti sui quali possiamo vantare qualche superiorità, e che non bastano tuttavia a modificare una condizione di inferiorità quanto meno sotto il profilo della gestione politica. Fuori d’Italia, quest’ultima bene o male funziona, senza che si avverta un particolare bisogno di profondi rinnovamenti; neppure in Spagna, paese di democrazia giovane, di sviluppo economico recente e ancora fragile, e però governato meglio (malgrado una disoccupazione doppia della nostra) e comunque in modo molto più apprezzato all’estero, mercati finanziari compresi.
A questo punto conviene citare nuovamente D’Alema, non perché sia il moderno Aristotele bensì in quanto autore, qualche anno fa, di un libro intitolato “Un paese normale”. Personalmente non l’ho letto ma mi risulta abbia additato tra i primi un obiettivo ormai largamente condiviso: quello appunto di curare i mali nazionali senza perseguire palingenesi più o meno rivoluzionarie ma una più banale normalizzazione. La quale può significare soltanto portarsi ai livelli e moduli predominanti nel resto dell’Europa occidentale (senza dimenticare che anche buona parte di quella orientale sta progredendo rapidamente in tale direzione), cercando beninteso di salvaguardare le positive peculiarità nazionali che pure esistono.
Gli sforzi in questo senso, sinora, hanno dato frutti insoddisfacenti, ma nulla vieta e semmai tutto consiglierebbe di insistere, malgrado le delusioni. Resta però da vedere come, ossia giocando quali carte e scartando invece quali altre. Un dibattito nazionale al riguardo è tutt’altro che inedito e poco frequentato, ma pur rispondendo evidentemente ad un’esigenza largamente sentita si mantiene troppo spesso sulle generali oppure si concentra eccessivamente su temi di dettaglio. Da decenni si reclama, soprattutto a sinistra, un “nuovo modo di fare politica”, senza che nessuno abbia mai chiarito o capito in che cosa esattamente consista. A destra si contava molto sull’effetto B, ovvero sulla ventata d’aria fresca, creatività e capacità propulsiva apportata dall’avvento al potere di un grande imprenditore, di un “uomo del fare” in luogo dei profeti di “convergenze parallele”, “teste d’uovo” e dottori sottili di questo o quel colore. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Nel mondo politico e tra gli studiosi ed esperti, adesso, ci si confronta soprattutto, quotidianamente e accanitamente, su come cambiare o ritoccare il sistema elettorale, nel pur giusto presupposto dell’indecenza del vigente Porcellum. Con il dovuto rispetto per la sapienza e l’autorevolezza del professor Sartori e di altri vecchi e nuovi guru, nonché per la tenacia e l’abnegazione di Mariotto Segni e di altri combattenti per la nobile causa, sembra in realtà fatica sprecata e tempo perso. Non si vede infatti cosa ci si possa aspettare da un nuovo cambiamento della legge elettorale dopo gli esiti dei precedenti, a meno di non voler provare proprio tutti i modelli esistenti al mondo prima di dichiararsi vinti, naturalmente senza alcuna garanzia di trovare quello buono. Non è comunque intellettualmente lecito sostenere oggi che i voti di preferenza siano indispensabili quando ieri li si bollava come un invito a nozze per le mafie, oppure lamentare che i deputati non siano scelti dal popolo ma dai capipartito come se nella spesso rimpianta prima repubblica avvenisse il contrario. O, ancora, stigmatizzare l’eccessivo premio di maggioranza previsto per la Camera e rivelatosi tuttavia perfettamente inutile ai fini dell’agognata governabilità.
Stupisce quindi che anche una persona di buon senso come Romano Prodi, contrario oggi ad un governo tecnico giudicato incompatibile con il bipolarismo, auspichi l’adozione di una legge elettorale che confermi quest’ultimo; e ci auguriamo anzi, questa volta, che l’ex premier smentisca una simile esternazione dichiarandosi frainteso dalla stampa, come ormai i politici nostrani fanno quasi sistematicamente. L’esperienza dimostra in modo incontrovertibile, mi sembra, che con le leggi elettorali non si confermano, almeno dalle nostre parti, né il bipolarismo, rimasto sinora una pia illusione come a maggior ragione il bipartitismo (il cui antesignano Veltroni, peraltro, dissente adesso da Prodi), né qualsiasi loro contrario.
Di qui, per concludere, la seconda obbiezione che credo di dover rivolgere alla proposta della democrazia elettronica. Tutto lascia pensare che i più brillanti ed ingegnosi ritrovati tecnici, di cosiddetta ingegneria costituzionale o altro, forse utili per risolvere al massimo qualche problema molto specifico all’interno di un determinato sistema politico, difficilmente possano rispondere all’esigenza di crearne uno nuovo, sufficientemente funzionale, per sostituirne un altro inficiato dalla prolungata e comprovata inadeguatezza delle classi dirigenti di un determinato paese. Se i tentativi di riuscirvi sono falliti su scala ridotta, come sperare che possano andare a buon fine mirando così in alto?
Siccome però il problema di un leniniano “che fare” si pone, anzi certamente si impone all’ordine del giorno, e quindi alle proposte che non convincono è quasi d’obbligo replicare avanzandone delle altre, diciamo subito che per rimediare ai gravi difetti del sistema politico e del personale politico appare necessario tenere ben presenti anche quelli del paese in generale e del suo popolo, indissolubilmente intrecciati con i primi come si è già detto e ripetuto. Ma ne riparleremo alla prossima puntata, ossia nell’ultimo articolo di questa serie.
Franco Soglian