C’è un’America che riscatta le infamie delle guerre di Bush/Obama e di vari predecessori -infamie risalenti a Franklin D.Roosevelt, anzi a Wilson- ed è l’America della filantropia colossale. Nel 1994 Bill Gates imperatore informatico crea a Seattle, dal suo, una Bill and Melinda Gates Foundation per portare “innovations in health, development and learning” ai popoli poveri. La fondazione ha già erogato $25.364.000.000. Su una dotazione complessiva di $36,3 miliardi, 8,01 sono stati donati da Warren Buffett, il numero Due o Tre dell’elenco Forbes dei Cresi.
Buffett è l’uomo che in agosto disse agli arcicampioni del denaro mondiale, cominciando da se stesso, che dovrebbero pagare più tasse. Dalle colonne del New York Times testimoniò:“Nel 201O ho versato al fisco poco meno di $7 miliardi, il 17,4% su un imponibile di 62 milioni. Troppo poco, visto che le aliquote dei 20 assistenti del mio ufficio hanno pagato in media il 36%”. Il Nostro non l’ha ricordato, ma alla sola fondazione Gates ha staccato cinque assegni da 1,6 miliardi ciascuno.
Oggi Gates e Buffett sono campioni planetari dell’elargizione benefica ma, come tutti sanno, non fanno che continuare una tradizione che, a questi livelli astrali, risale agli anni Ottanta dell’Ottocento. Nell’immenso vitalismo di quella fase gli Usa -conquistato il West, comprata l’Alaska e in pratica le Hawaii- si affermano anche come dominatori del Pacifico. Quando nel 1889 navi da guerra britanniche e tedesche tentano di affermare la sovranità dei loro Stati sulle isole Samoa, trovano una task force americana, pronta ad aprire il fuoco. Nove anni dopo gli Usa umiliano la Spagna a Cuba affondando tutti i suoi vascelli e conquistando, oltre all’isola e a Puerto Rico, anche le Filippine. E’ il volto guerresco (oggi sogno impossibile) dell’esplosione economica dell’America.
Sullo sfondo di questa esplosione si stagliano quei titani d’industria i quali sono anche i protagonisti di una saga umanitaria senza riscontro nella storia della ricchezza privata mondiale. Arricchendosi smisuratamente, creano, verrebbe da dire inventano, la filantropia colossale. Primeggiarono John D.Rockefeller (fu creduto il più ricco del pianeta) e Andrew Carnegie costruttore di possenti acciaierie. A favore della famiglia umana fanno cose che in Europa spettano ai grandi Stati, e prima spettavano ai monarchi. In più Carnegie lancia da Pittsburgh, capitale dell’acciaio, un messaggio di dionisiaca fiducia nel progresso e nell’uguaglianza (allora) delle opportunità: scrive o fa scrivere alcuni libri, tra cui ‘Democrazia Trionfante (1886).
Era immigrato dalla Scozia a undici anni e aveva fatto vari mestieri manuali finché si era dato al commercio del petrolio, poi alla produzione siderurgica (introdusse il metodo Bessemer). Finì col donare la parte maggiore delle sue ricchezze. Tra l’altro fondò 200 biblioteche: Come molti altri connazionali dopo di lui, scrisse alcuni libri (tra cui ‘Democrazia Trionfante’, 1886) per condividere i segreti del successo e, come recita lo statuto della Carnegie Institution, “per applicare la ricerca sientifica al miglioramento dell’Uomo”.
John Davison Rockefeller, forse più forse meno generoso di Carnegie (nonché più longevo: visse 99 anni) assegnò alle sue varie fondazioni gli stessi compiti umanitari che oggi animano i Gates e i Buffett: promuovere la scienza, la cultura, la formazione umana del popolo, finanziare la ricerca medica e scientifica, eccetera. Il figlio John D. junior portò avanti l’opera paterna, e poi finanziò le spedizioni Byrd ai due Poli.
Da allora non si sono contate le elargizioni dei più ricchi a cause meritevoli, alcune genuinamente caritatevoli, altre motivate dall’orgoglio o dalla ‘peer pression’. Gates e Buffett, oltre a donare in grande, portano avanti la tradizione di rivolgersi ai popoli perché confidino nelle virtù dell’edificazione economica e della solidarietà. Warren Buffett, principe degli operatori finanziari, consigliere di Presidenti, oracolo degli investitori, ha scritto volumi sulle vittorie ‘spirituali’ del denaro. L’ambito in cui questa predicazione ha raccolto i frutti più vistosi è la Cina. Lì ‘the God of Stocks’ ha la popolarità di una rock-star; i grandi media raccontano di lui opere, iniziative, pensieri. In cinese sono stati pubblicati 40 libri su Buffett. Il bello è che i cinesi non sembrano condividere, del loro idolo, la filosofia dell’elargizione. Non approvano -come non si approva da noi- che ai ricchi si proponga di falcidiare i patrimoni a scapito dei familiari eredi.
E’ tale la gloria di Warren Buffett che un libro di suo figlio Peter, pubblicato quest’anno da un editore cinese col titolo (inglese) ‘Be Yourself’, ha venduto 320 mila copie, anche mille al giorno on-line. Buffett il Giovane, che fa il musicista non il finanziere, manda avanti una propria fondazione caritatevole, e lo stesso fanno due suoi fratelli. Secondo “Fortune” il messaggio del libro da 320 mila copie è ‘radicale’: “Money isn’t everything”.
Per questo abbiamo esordito che la filantropia riscatta l’America, dai suoi misfatti bellici e da molti dei suoi vizi. E i nostri ricchissimi, dal senatore Giovanni Agnelli ed eredi a Berlusconi e a De Benedetti, hanno insistito per pagare più tasse? Hanno elargito ‘quasi tutto’ in beneficenza? Sembrerebbe ‘quasi niente’, a parte l’alimentazione della propria egolatria, più il mecenatismo del non indispensabile (arte, grafica, palazzi sontuosi, et cet.). Non hanno scritto libri per divulgare i segreti del proprio successo.
Meglio così. Per la loro reputazione.
Anthony Cobeinsy