UNA VIA DI SALVEZZA III
Richiami e invocazioni al Rivoluzionario di Treviri si fanno frequenti, e non è un buon segno: vuol dire che mancano idee nuove. Tuttavia questi richiami attestano che il vento sta cambiando; che il liberismo è parecchio meno perenne del bronzo; che forse non moriremo servi della gleba mercatista/consumista. I nostalgici non si illudano che un imperatore Giuliano l’Apostata faccia risorgere il credo marxista, fatto di idoli e di falsi dei. Non si illudano nemmeno i tomisti del liberal-capitalismo.
Nel numero scorso di ‘Internauta’ (settembre) l’articolo “Se i ricchi non sborsano tornerà la lotta di classe” di Franco Soglian ha segnalato in dettaglio l’incisivo intervento su ‘Die Zeit’ di Uwe Jean Heuser, un liberale che sottolinea la sua estraneità al campo sinistrista: “Tenere duro su alti salari e più welfare porterebbe presto alla disoccupazione di massa”. Orbene Heuser avverte che “si riaccende la lotta di classe” e che i ricchi e i benestanti dovranno pagare parecchie più tasse. Heuser è categorico: i governi salvano le banche per difendere i patrimoni privati, ma “l’Occidente non può uscire dalla crisi mantenendo inalterato il sistema col quale è precipitato. Mai i paesi ricchi erano stati malmessi come oggi (…) Quando i conservatori cominciano a dubitare, qualcosa sta per accadere. Quando i ricchi raddoppiano i loro redditi, anche la democrazia è in pericolo. La sinistra ha dunque ragione? No, o meglio solo in parte.”
Per Heuser “una grande ondata redistributiva investirà l’Occidente”. Tassare sensibilmente di più in alto sarà la via obbligata. Estremamente significativa la precisazione: “La sinistra ha solo qualche ragione. Per tassare i ricchi non abbiamo bisogno delle sinistre”. (Se ci fosse tale bisogno, aggiungo io, i ricchi dormirebbero sonni tranquilli. Oggi le sinistre non realizzano più alcunché di importante. Quanti prendono sul serio chi non è credibile?).
Forse sessantasei anni di trionfi del danarismo volgono alla fine. In particolare è il momento di chiudere un ventennio di festeggiamenti per la morte del comunismo come potere e come idea. Il comunismo è certamente defunto, ma qualcosa di meno feroce prenderà il suo posto come antagonista dell’egemonia dei soldi. Troppi tonfi borsistici, troppi downgrades, troppi dubbi sull’euro, sull’Europa, su un sistema che si credeva vittorioso per sempre, sulla crescita. Nell’immediato è la non-crescita a suscitare sgomento tra i conservatori, misto a una rabbiosa volontà di reagire. Si vedrà quanto fortunata.
Qualche rianimazione della crescita è possibile ma non sarà né generale né impetuosa sulla distanza. Ormai l’imperativo epocale è la decrescita. Il mondo occidentale si è sviluppato troppo; è ora di avviare lo sviluppo negativo. Due-tre generazioni fa il nostro Stivale era soprattutto abitato da poveri e da gentarella, ora pullula di Suv, barche e futili centri benessere. La retribuzione più alta era qualche decina di volte la più bassa, oggi è qualche centinaia di volte. Tutto ciò è pessimo: si fermi ed arretri. Non tanto perché lo sviluppo ha devastato il pianeta. Il lago Aral, quarto al mondo, vasto come Piemonte Liguria Lombardia Trentino-Alto Adige insieme, è sparito all’85%: ucciso dall’uomo, soprattutto per produrre cotone ed altro, cioè per dare pane e benessere. Ma le nuove forze dell’economia globale non consentiranno più la perpetuazione del benessere occidentale.
Gli economisti, i politici, gli imprenditori, i sindacalisti del capitalismo ululano alla Luna la loro fame di crescita. Invece col tempo avremo una decrescita che giocoforza abbasserà l’occupazione e il benessere. Le difese del liberismo saranno soverchiate. Si imporrà un nuovo comunitarismo che garantisca il minimo vitale a tutti. Non sarà un collettivismo marxista e non sarà gestito dalle sinistre che conosciamo. Queste ultime, miniaturizzate, svolgeranno ruoli di nicchia.
Nascerà un settore di aggregazioni cooperative funzionali alla cogestione tra capitale e lavoro, lavoro ispirato anche a ideali solidali, antiedonistici, anticonsumistici. Sarà il socialismo egualitario dei kibbuz e dei monaci che prosciugavano le paludi (v. in questo numero “Guild Socialism contro le disfatte moderne dell’equità”).
Le sfere di libertà non potranno non ridursi. La disciplina dovrà prevalere sui diritti. Una comunità generale dalla forza indiscussa dovrà poter espropriare i redditi alti a favore dei senza reddito; e poter fissare, anche con le leggi suntuarie, regole che riducano i divari delle condizioni e i consumi. Sarà populismo? pauperismo? moralismo? Sì, anche.
A quel punto è evidente che il suffragio universale, il parlamentarismo, le Costituzioni liberali non reggeranno alle sfide. L’accoppiata capitalismo-democrazia elettorale ha allargato i divari invece di livellarli, da noi e più ancora negli USA, Eden della demoplutocrazia. Ma a questo paradosso generale si sono aggiunti in Italia paradossi particolari. Per esempio è lunare che lo Stivale, politicamente strutturato da una Costituzione osannata a vanvera, sia incapacitato a licenziare un governante che si è fatto sultano al tempo stesso dispotico e impotente a governare. Ci sarebbero le condizioni perché un Ataturk energico e noncurante della Costituzione deponesse agevolmente il sultano uscito di testa. L”esperienza di due o tre repubbliche insegna che il processo politico demo-pluto-cleptocratico non sa guarire le sue patologie.
A.M.C.