UNA VIA DI SALVEZZA IV
Nella sua ovvietà, è stata paradigmatica il 21 settembre la puntata di “Tutta la città ne parla”, 3° programma Rai. Tema, la chiusura della Irisbus a Valle Ufita in Irpinia. La fabbrica, del gruppo Fiat, conta 681 dipendenti, in cassa integrazione; poi ci sono i lavoratori dell’indotto. Oggi Irisbus non ha clienti, in pratica. Per l’export non ha quasi mai lavorato; il suo mercato era italiano. Le regioni e i governi locali, cui i tagli hanno tolto risorse, non hanno la capacità di ordinare autobus.
Secondo i sindacalisti, la Irisbus è l’unica azienda italiana che può produrre questi veicoli. Teorizzano, testualmente: ”Siamo nati per fornire l’Italia; spetta all’Italia tenerci in vita”. Nessun accenno al diritto/dovere dell’Italia di comprare autobus, quando potrà, da chi li fa pagare meno. Altra argomentazione/apodissi, avanzata in splendida assolutezza, senza riferimenti al problema delle risorse: “Il parco autobus italiano è vecchio, va aggiornato”. Risorse a parte, questo è vero solo in una logica di consumismo ultra-esigente. I bus in circolazione sono abbastanza moderni da restare operativi per anni. Le motivazioni per sostituirli sono occupazionali, non tecnico-economiche.
Questi i termini di una situazione che vale anche per molte decine di imprese medio-grandi italiane, per qualche migliaia di imprese medio-grandi dell’Occidente intero. Sappiamo, da prima della nanizzazione dei mercati, che la Cina ed altre realtà economiche nuove possono produrre “tutto” per il pianeta, a prezzi e a livelli di qualità che espelleranno dal mercato molte fabbriche dei paesi di vecchia industrializzazione. “Tutta la città ne parla” ha dato la misura dell’inesistenza, magari momentanea, di alternative che non siano i salvataggi industriali a spese del contribuente. Una parte delle manifatture italiane, europee, americane, persino giapponesi, resteranno aperte solo se riceveranno commesse assistenziali, le quali dilateranno l’invenduto. Altrimenti chiuderanno. Siamo alla crisi grave di sovraproduzione e non uno tra gli imprenditori, i governanti, i guru sembra in grado di indicare rimedi diversi dalla filantropia pubblica.
Sono decenni, in qualche caso secoli, che certe industrie esistono soltanto per gli ordinativi e i sussidi del Principe. L’argomento principale a favore di questa prassi è che un paese industriale non può deindustrializzare, non può privarsi dei suoi ‘gioielli’ e delle collegate ricerche, università, etc. In più, in caso di guerra, si troverebbe sguarnito di opifici e arsenali. La risposta a quest’ultimo argomento è che, nel Terzo Millennio, è imperativo fare in modo di non trovarsi in guerra. Quanto all’indispensabilità dei ‘gioielli’, il denaro pubblico non può pagare per sempre il prezzo di produrre beni invendibili.
E’ categorica l’esigenza che la collettività (l’impresa no) non abbandoni alla miseria i lavoratori ridondanti. Ma se per dare a ciascuno di essi 1500 euro occorre spendere il doppio, è evidente che la collettività preferirà pagare 700 per un sussidio piuttosto che 3000 per un salario improduttivo. Sono assai poche le fabbriche senza commesse le quali meritano d’essere salvate. Le fabbriche esistono per produrre merci, non salari. Per il soccorso esistono altre vie.
Molti di quanti perderanno il lavoro, non ne troveranno un altro. Le industrie senza mercato vanno lasciate fallire e i licenziati riceveranno solo un sussidio poco più che alimentare. Di più, la difesa del reddito piccolo-borghese è impossibile. Forse arriva la Seconda Depressione. Le banche potranno o no recuperare in borsa, ma oggi 23 settembre i tre massimi istituti della Francia hanno perso metà del loro valore. Ci sono titoli borsistici che quotano un decimo di pochi mesi fa. Gli Stati Uniti, finora additati come possente centrale di produttività e di ricchezza, hanno più disoccupati di noi: oltre il 9%. Giorni fa il loro Census Bureau ha accertato la povertà più alta sui 52 anni di questa specifica rilevazione: il 15% degli americani vivono al di sotto della poverty line. Ha concluso la columnist Rana Foroohar di ‘Time’: “The American Dream is increasingly becoming a myth”.
A non voler chiudere le frontiere, a non riparare in un’autarchia la quale pure distruggerebbe lavoro, non resterà che accettare l’arretramento del benessere, il ritorno alla parsimonia, la vita semplice e persino povera.
Invece che la disperazione, mettersi insieme
Ecco un esempio delle cose che i senza lavoro definitivi dovrebbero fare nella nostra, come in ogni altra Irisbus del mondo. Invece che scalare gru, piantare nelle piazze tende indignate, incatenarsi ai cancelli, esibire ai cameramen cartelli perfettamente insulsi “Irisbus non si tocca Lavoro è Dignità”, invece di pretendere la difesa di posti parassitari, gruppi affini (a vario titolo) di licenziati, operai e laureati, farebbero bene a costituirsi in kibbuz o gilde socializzanti, aggregazioni per il lavoro e per la vita (v. in questo numero “Guild Socialism contro le disfatte moderne dell’equità”). Metterebbero in comune gli assegni di liquidazione e di disoccupazione, gli sforzi per inventare lavori sostitutivi, più ancora iniziative radicalmente nuove che abbassino i costi del vivere. Trenta famiglie che si mettano insieme e scelgano la vita semplice spenderanno molto meno che la somma di trenta bilanci individuali tiranneggiati dagli standard consumistici e sempre più precari.
Vendano gli alloggi per spegnere i mutui proibitivi, disdicano gli affitti, realizzino un edificio comunitario, magari su un angolo del perimetro industriale o in un capannone dismesso. La casa comune sarebbe progettata in modo da salvaguardare una parte delle autonomie e privacies tradizionali: cucina e refettorio comuni ma anche microangoli di cottura individuali; non tanti soggiorni, cantinette e locali giochi quante famiglie, ma pochi grandi spazi di socializzazione articolata e flessibile. Non 30 0 50 auto ma 3 o 4 da usare a turno, e in più convenzioni con aziende di noleggio e tour operator. Niente garage, niente o quasi acquisti, vacanze e altri programmi dell’individualismo consumistico o dell’indipendenza sofferta e costosa. Per non pagare asili e nidi, una/uno del kibbuz tenga a turno i bambini. Insomma derogare dagli standard, ripudiare abitudini e convenzioni, sia per necessità (cavarsela bene con redditi ridotti), sia per vivere meglio. Ci si liberi del superfluo!
Grazie alle esenzioni spettanti a chi compia rinunce e imbocchi sentieri nuovi, i carichi fiscali della comunità saranno una frazione della somma delle tasse individuali. E il kibbuz sarà premiato in vari modi se avvierà attività produttive o socialmente utili: manutenzioni, riparazioni, confezioni artigianali, servizi professionali, assistenza e ospitalità calmierate agli anziani, compiti specifici per i giovani, etc. Il settore solidale e semisocialista che nascesse nell’economia e nella società sarebbe all’inizio assai modesto, ma il suo esempio trascinerebbe per le sperimentazioni e gratificazioni di un vivere migliore.
E’ certo: il grosso dei senza lavoro di una cento mille Irisbus continuerà a declamare patetici slogan di combattimento e/o accattonaggio. Alla fine si rassegnerà alla miseria, senza le speranze e anche le certezze offerte da una vita diversa. Vincerà l’acume dei cartelli “Irisbus non si tocca”.
l’Ussita