Ci vorranno cento anni per smaltire i veleni e i danni iniettati nel Paese dal berlusconismo. Ecco perché diciamo di no ai segnali lanciati da alcuni imprenditori che bramano di scendere nell’arena politica. Gli imprenditori, che devono anche farsi perdonare di avere sostenuto così a lungo, così acriticamente, così ciecamente, così appassionatamente, così collusivamente, Berlusconi, pensino invece a rifondare un’economia seria, pulita, produttiva..
Quando lanciammo un sondaggio tra i nostri lettori, chiedendo quanto tempo sarebbero durati i veleni ed i danni iniettati nel Paese dal berlusconismo, la maggioranza rispose: dieci anni. Ora il vescovo di Mazara del Vallo – dichiarazione che pubblichiamo a parte – parla di quaranta anni. Chi scrive pensa che l’unità di misura corretta sia quella del secolo. Anche se la forbice dell’indicazione quantitativa può essere molto ampia, esistono ormai pochi dubbi, nella maggioranza dei cittadini, compresi molti dei suoi servi più fedeli, che i danni causati al Paese dall’imprenditore Berlusconi sono altissimi, e che il peso della c.d. tassa Berlusconi è più elevato di qualsiasi possibile imposta patrimoniale si sia mai vista sulla faccia della terra.
Una parte di questa gigantesca imposta è riconducibile al genio, in un certo senso, unico di Berlusconi. Ma un’altra parte, non piccola, è direttamente legata proprio al suo essere imprenditore, ed è su questo aspetto che vogliamo riflettere.
Se ci sforziamo di ricordare la figura di qualche imprenditore che abbia svolto, con successo duraturo, una importante funzione di guida politica, ben pochi o nessuno ci viene alla mente nella storia moderna di tutti i paesi. Certo non furono gli imprenditori a guidare la ricostruzione europea dopo la seconda guerra mondiale, i cui artefici si chiamavano Churchill, Adenauer, Schuman, De Gasperi. Né furono gli imprenditori a guidare la ricostruzione degli USA dopo la grande crisi degli anni Trenta, quando la leadership fu assunta da Roosevelt. Né furono gli imprenditori a guidare il processo di unificazione italiana i cui alfieri si chiamavano Cavour, Garibaldi, Mazzini. Né furono gli imprenditori a svolgere una funzione guida nel processo di unificazione europea, al quale, anzi, molti di loro si opposero a lungo.
Ogni tanto troviamo qualche imprenditore che assunse la responsabilità di ministro. Alcuni svolsero, in questa veste, un’azione politica rilevante. Tra tutti, in primo luogo, Walther Rathenau (1867-1922), imprenditore, dirigente industriale (era figlio di Emil il fondatore della AEG) ma anche statista, filosofo sociale, scrittore, pioniere degli studi sulla responsabilità sociale d’impresa, ministro della Ricostruzione nel 1921 e poi ministro degli Esteri dal gennaio 1922 sino a quando fu assassinato da appartenenti alle formazioni giovanili di destra. Un personaggio poliedrico, colto, eminente. Eccellente ministro delle Finanze fu, nel 1925, l’imprenditore e finanziere Giuseppe Volpi, nominato dal fascismo Conte di Misurata (per i meriti acquisiti come governatore della Tripolitania), la cui politica del debito pubblico e delle riforme fiscali andrebbe, ancora oggi, studiata a fondo. Ma molto più numerose sono le figure di imprenditori o alti dirigenti d’impresa che, come ministri, fecero molto male. Come McNamara, grande ed ottimo dirigente industriale, che fu un pessimo ministro della Difesa di Kennedy, come Hank Paulson, grande dirigente bancario, uno degli uomini più ricchi d’America e catastrofico ministro del Tesoro del presidente Bush; come il nostro Lunardi, disastroso ministro dei Lavori pubblici di Berlusconi, il teorico della convivenza con la mafia.
Perché dunque è così difficile che un, pur bravo, imprenditore sia anche un buon politico? Lo spiegarono, con formula assai concisa, i veneziani nel 1534, quando, riferendosi ad Alvise Gritti, dissero criticamente: “Ille vult esse dominus et simul vult esse mercator; esse autem dominus et mercator impossible est”. Il tema è stato analizzato da Ludwig von Mises nel 1922 nel suo libro “Socialismo”, uno dei libri fondamentali del ‘900, che ha spiegato, con un anticipo di 70 anni, perché le economie centralizzate non potevano funzionare: “L’intero scopo dell’imprenditore è di adattarsi alle contingenze economiche del momento. Il suo scopo non è di combattere il socialismo, ma di adattarsi alle condizioni create da una politica che tende alla socializzazione. Non ci si deve attendere che gli imprenditori o qualsiasi altro gruppo nella società debbano, al di là del proprio interesse, fare dei principi generali di benessere la massima della loro propria azione. Le necessità della vita li spingono a trarre il massimo da ogni circostanza data. Non è affare degli imprenditori dirigere la lotta politica contro il socialismo; tutto quel che li riguarda è adattarsi nei confronti della socializzazione, in modo da trarre il massimo profitto possibile nelle condizioni in cui si trovano”.
Lo ha sostenuto, sin dal 1954, Peter Drucker, il massimo cantore dell’impresa e della responsabilità imprenditoriale:
“Solo a questo punto si può affrontare il problema delle responsabilità che la classe dirigente industriale dovrebbe assumersi, essendo uno dei gruppi-guida della società moderna, responsabilità che trascendono quelle di natura puramente aziendale. Non passa giorno, senza che un portavoce dell’industria non affermi l’esistenza di una qualche responsabilità nuova di questo genere. Si è sentito dire che l’industria, e per essa i suoi dirigenti, dovrebbero essere responsabili della sopravvivenza degli studi classici nelle università, della istruzione economica dei lavoratori, della tolleranza religiosa, della libertà di stampa, del rafforzamento o della abolizione delle Nazioni Unite, e della “cultura” nel senso più ampio e della protezione delle varie arti.
Non c’è alcun dubbio che l’essere un gruppo guida comporti delle gravi responsabilità e che nulla è più distruttivo che l’evitare tale responsabilità. Del pari, però, nulla è altrettanto distruttivo quanto rivendicare delle responsabilità che un gruppo non ha; nulla è più pericoloso che l’usurpare delle responsabilità. Il modo con cui la classe dirigente industriale d’oggi ha affrontato il problema, tende a commettere ambedue questi errori, a evitare, cioè, delle responsabilità reali e a usurpare delle responsabilità che non esistono e non devono esistere.
Infatti, chiunque parli di “responsabilità”, afferma implicitamente anche l’esistenza di una “autorità”. Affermare che la classe dirigente industriale ha delle responsabilità in un determinato campo, significa anche affidarle un’autorità in quel campo. C’è, forse, una qualche ragione per credere che in una libera società, una classe dirigente dovrebbe avere autorità in campo universitario, artistico, educativo o in merito alla libertà di stampa o in politica estera? Sollevare il problema significa dargli l’unica soluzione possibile: un’autorità del genere sarebbe inammissibile. Affermazioni del genere non dovrebbero essere concesse neppure alla foga oratoria dei discorsi di apertura dei “picnic” che le aziende, per antica abitudine, tengono ogni anno.
Le responsabilità pubbliche della classe dirigente industriale dovrebbero quindi essere limitate a quelle aree, in cui essa può, legittimamente, invocare autorità”.
Infine la dimostrazione definitiva dell’incompatibilità tra la mentalità, la cultura, la metodologia dell’imprenditore e quelle dell’uomo politico, ci è stata offerta proprio da Berlusconi, la cui azione (a prescindere da tutte le valutazioni di carattere morale) si è dimostrata una delle più inefficienti, inefficaci ed inconcludenti della storia italiana, proprio perché “Ille vult esse dominus et simul vult essere mercator; esse autem dominus et mercator impossibile est”.
Anche chi scrive è stato ed è da una vita un cantore dell’impresa, dello spirito imprenditoriale e della responsabilità imprenditoriale e pensa che il ruolo che lo spirito d’impresa può e deve avere per la decisiva partita in corso per salvare e ricostruire il Paese dai disastri del berlusconismo e della Lega congiunti, sia molto importante. Ma ognuno nel proprio ruolo, facendo le cose che sa fare, assolvendo bene alla sua missione.
Per questo guardo con crescente e doppia inquietudine ai segnali che vedono alcuni imprenditori bramosi di scendere nell’arena politica. Parlo di doppia inquietudine, perché il rischio che corriamo di un’azione di questo tipo è doppio. Rischiamo di avere nuovi governanti pessimi, come sono, salve rarissime eccezioni, gli imprenditori quando scendono (non si dice mai: quando salgono) in politica. Rischiamo di avere nuove forme di conflitti di interesse e di confusioni di ruolo che tolgono alla categoria imprenditoriale, nel suo insieme, quella credibilità necessaria per pesare, come corpo imprenditoriale, nel processo di disinquinamento e ricostruzione del Paese. Un ruolo molto importante spetta agli imprenditori associati nella battaglia per la rifondazione di un’economia seria, pulita, produttiva. Ma proprio per questo dobbiamo dire no al partito o ai partiti degli imprenditori. Qui abbiamo già dato e gli imprenditori devono anche farsi perdonare di avere sostenuto così a lungo, così acriticamente, così ciecamente, così appassionatamente, così collusivamente, Berlusconi. È giusto perdonarli. Ma che non “scendano”in politica, ma piuttosto “salgano” come responsabilità pubblica. Per gli imprenditori in politica abbiamo già dato. E ad occhio e croce, per un centinaio di anni dovrebbe bastare.
Marco Vitale