Jacopone da Todi non amava Gesù come Ferrara ama GW Bush e Dick Cheney (un po’ meno forse ama Rumsfeld, colui che divise l’Europa in ‘new’ e ‘old’, così come Geova divise la terra dalle acque). Ex aequo il dominus de Il Foglio ama perdutamente Berlusconi.
Abbiamo letto sulla ‘presidenza combattente’ di Bush parole così intense che Ferrara deve averle scritte col petto rotto dai singulti, in stato di invasamento, come a Delfi la profetessa Pizia quando le esalazioni dalla voragine del dio Apollo erano entrate in lei e la squassavano. Un paio di settimane fa un Ferrara ancora squassato martellava che la guerra all’Irak fu “una risposta necessaria, dolorosa e generosa, nel nome della Costituzione (?) e della libertà dei popoli. Non fu una carneficina inutile, bensì l’esportazione del rischio e della democrazia, la prova che eravamo in vita, che la battaglia sarebbe stata lunga e dolorosa ma degna d’essere combattuta (…) una guerra di liberazione in cui i liberatori ci mettono la faccia, la vita, l’immensa fatica di pacificare e di ricostruire (…) L’attacco sanguinoso al cuore del capitalismo liberale doveva trovare una replica di peso storico. La strategia di Bush Cheney e Petraeus era all’altezza dell’11 Settembre, e i Berlusconi e i Blair lo capirono e pagarono il costo di una decisione difficile. Tutto il resto era fanfaluca, timore reverenziale, islamosudditanza nel nome della rinuncia occidentale a difendere la libertà dei cittadini, delle donne, delle minoranze oppresse”.
Ha ragione, fu una carneficina proprio indispensabile. Notare l’aggiunta di Blair ai Tre Moschettieri ‘del rischio e della democrazia’. Tutto il resto, cioè quella vasta maggioranza della popolazione del pianeta che non si è unita a Bush e a Giuliano, è fanfaluca. Anche voi lettori siete islamosudditi. Quando Ferrara riscriverà, per migliorarlo, l’Inferno dantesco dovrà dilatarlo alla misura della sua poiesi immensa, perchè possa accogliere, esso Inferno, circa sei miliardi di humans che furono sordi al grido di battaglia di Bush e di lui stesso, l’aedo del combattimento liberalcapitalista. E come azzannò Obama, Giuliano Ferrara, appena cominciata la gazzarra araba, perché non mandava la VI flotta a schiacciarla!
Dicevamo che il cosmo di Giulianoferr è vasto abbastanza da includere un’extra nebulosa di lodi a Berlusconi. Trascriviamo qui uno scampolo di ditirambo da ‘Panorama’, 21 settembre. Elenca alcune (poche, per la tirannia dello spazio assegnato alla ‘column’ giulianesca, ‘L’Arcitaliano’) delle doti di natura assegnate dagli dei a Berlusconi: “Candida (alle elezioni) le Belle e Brave”. Esercita “una superba libertà psicologica da ogni costrizione formale: fare quello che gli pare è il suo crisma. E’ un grandissimo monello”.
L’11 agosto l’Arcitaliano aveva stoppato il chiacchiericcio sul dopo-Monello: “Ben venga un governo tecnico. Ma c’è già: a guidarlo è l’istinto imprenditoriale di Berlusconi”. E il 7 agosto: “Con la stessa energia che ha tappato la bocca ai suoi nemici coll’approvazione della manovra triennale, Berlusconi dovrebbe guidare comunque, Tremonti o no”. In effetti la torma dei nemici del Monello, tutti con la bocca tappata, la vedete lì ammutolita, impotente, scornata.
Non crediate, peraltro, che lo Jacopone-folle-del-Cav sia sempre posseduto dall’invasamento. Possiede riserve di fredda, perforante penetrazione, di visione notturna, di raggi X che attraversano masse per tutti noi opache. Leggete l’Arcitaliano del 21 settembre e ditemi se egli non è il grande Sintetizzatore. Titolo: “Dico che Napolitano non è un avversario di Berlusconi ma invece una figura istituzionale che lo sta aiutando a governare”. Leggete, perché è stato scritto fuori invasamento da una Pizia che non si cura più di Apollo. Questa volta Ferrara ha ragione; i media che stanno alle apparenze, torto.
Già il 31 agosto l’Arcitaliano, messi bismarckianamente da parte i sentimentalismi, aveva alzato il più alto degli encomi a Napolitano in quanto allievo “di quella scuola politica che fu il Pci, per decenni inquinata dall’ideologia ferrigna del comunismo novecentesco, ma nella sua versione nazionale, togliattiana”. E cosa porta avanti l’Allievo? “L’esclusione per principio di ogni interferenza moralistica nella politica, arte specifica del possibile”.
E’ un merito immenso pure secondo noi, visto che lasciata a se stessa la politica italiana partirebbe per la tangente del rigorismo strenuo e dell’idealità sfrenata. Se c’è una pecca del nostro retaggio nazionale è la troppa etica, l’eccesso di spiritualità, di disinteresse, di misticismo al limite. Non fosse stato per la vigilanza dell’Arcitaliano, del Colle e di quel sant’uomo di Palmiro Togliatti -che dal Paradiso dei miti assassini di G. Gentile ci corregge e protegge- la politica italiana avrebbe preso la strada pericolosa e giansenista delle eroiche carmelitane di Port Royal.
G. Ferrara elogia che il Cav, con istinto che non perde un colpo, abbia capito e doverosamente apprezzato il contributo del Colle post-togliattiano all’arte del governo: “Avrebbe potuto fare dell’elezione partigiana di Napolitano un classico tema di propaganda nel senso della rottura istituzionale. Ma se ne è guardato bene”. Era ‘insana’ la tentazione di fare a meno della nobile lezione di Togliatti, il vice-Stalin in Spagna e Italia. Ferrara: “Oggi il Cav è in grado di parlare sia la lingua del contrasto alla politica professionale vecchia scuola, sia la lingua del funzionamento regolare della Repubblica. E può farlo perchè è passata l’elettricità con una figura tanto diversa dalla sua. Una benedizione”.
Elogio supplementare al Colle più alto dell’Urbe: “Il gioco di squadra di governo, Quirinale e Bankitalia è la buona notizia di questa stagione triste. Istinto (di B) energia istituzionale (Colle) e alta burocrazia bancaria (palazzo Koch) sono le nostre vere risorse. Siamo messi molto meglio di quanto fanno credere gli scommettitori ribassisti”.
Capito? Lo Jacopone del Foglio non è solo pazzo di Silvio come l’omonimo di Todi era di Dio. E’ anche capace del crudo realismo di Machiavelli. E’ noto che per il Segretario fiorentino il perfetto Principe era Cesare Borgia duca di Valentinois. Risulta anche dall’ammirazione con cui l’acclamato maestro dell’ars politica italiana scrisse la celebre operetta del 1503 “Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini”. Sappiamo che per buona misura il Borgia ammazzò altra gente, tra cui Alfonso d’Aragona, secondo marito di sua sorella Lucrezia, integerrima madre del cardinale Ippolito d’Este; sui giardini del figlio della Borgia sorge il Quirinale, tempio dell’antimoralismo togliattiano.
Messo così, l’ego di G.Ferrara è ampio abbastanza da accogliere, oltre alla mistica di Jacopone, alla leonina ferocia di Cheney e all’amoralismo di Machiavelli, anche i sentimenti pre-bushiani di Clemente Solaro della Margarita (per il quale Cavour era un mezzo carbonaro); oppure, meglio, il fideismo di Joseph de Maistre, il savoiardo teorico della Restaurazione. E’ verosimile che l’Arcitaliano, ateo devoto, apprezzi in de Maistre anche lo sfortunato propugnatore del ritorno al Papato delle altre chiese cristiane.
Quante sono le anime di G. Ferrara! Ne abbiamo richiamate alcune, le più corrusche. Ma, a pensarci meglio, Egli non è solo il ‘ferrigno’ estimatore di chi mise a morte Vitellozzo et cet., nonché della lezione del Migliore. In varie espressioni del Nostro traspare anche un’altra gloria italiana, la vena burlesca di Cecco Angiolieri, il gaudente senese del Duecento che cantò sensualmente la sua donna Becchina (sbagliamo, o anni fa Giulferr tenne un corso di sesso?). Traspare anche lo sperimentalismo linguistico del Pulci, di Matteo Bandello e, più ancora, del Burchiello (1404-49). Con la sua narrazione bizzarra il Burchiello anticipò l’estroso poliedro Giuliano: al tempo stesso Jacopone; sodale di Bush, Cheney e Berlusconi; reincarnazione di de Maistre e Togliatti; infine sapido affabulatore burchiellesco.
l’Ussita