C’è chi è sicuro: la crescita prodigiosa della Cina non potrà continuare; si aggraveranno difficoltà sia gestionali, sia sociali; i mercati internazionali assorbiranno meno prodotti cinesi, anche perché andranno costando di più. I divari tra classi e sezioni del paese si allargheranno; cresceranno indebitamento e inflazione.
E c’è chi -sembrerebbe anche il Fondo monetario internazionale- prevede che tra poco più di quattro anni, nel 2016, la Cina supererà gli Stati Uniti e si troverà prima assoluta al mondo: la Cina che nell’Ottocento forniva i coolies che costruirono le ferrovie americane. Si attribuisce alla Banca mondiale la stima che lo sviluppo del 2011, pur rallentato rispetto ad anni precedenti, supererà il 9%, rendendo possibile il sorpasso dei sorpassi. Il contrasto fra le prospettive è troppo netto perchè le proiezioni degli economisti si prendano alla lettera. Forse è più saggio valutare i fatti del presente anche alla luce del passato vicino, diciamo dalla nascita della Cina comunista (ottobre 1949). Il passato millenario è importantissimo per spiegare i saperi anche tecnici del presente; ma possiamo darlo per noto.
E’ giusto esaltare, per esempio, il fatto che in sessant’anni 600 milioni di cinesi sono stati strappati alla miseria; non potranno più esserci le carestie che un tempo apparivano ineluttabili. Il mercato interno della Cina è già diventato considerevole, altrimenti non sarebbero spuntate come funghi le metropoli dei grattacieli, nonché i luoghi e i modi delle società avanzate, consumi di lusso e treni superveloci compresi. Il convoglio a livitazione magnetica della linea tra Shanghai e Hangzhou sfiora i 450kmh. Già oggi la Cina vanta alcune decine di primati assoluti, dal ferro e dal carbone ai pannelli fotovoltaici, ai parchi industriali (sono centinaia) più moderni. Se si sommano i volumi delle borse di Shanghai e di Shenzhen, il paese ha già il secondo mercato azionario del pianeta. Nel 2010 sono affluiti dall’estero investimenti diretti per oltre $130 miliardi. E’ ovvio che, con una popolazione sterminata, il reddito pro capite resti relativamente basso.
I volumi assoluti sono impressionanti. E’ il capitali pubblico o quello privato che produce tanta ric chezza? Fino a che punto la Cina è diventata capitalista? Qualche portavoce del governo ha sostenuto che sono in mano private il 90% delle imprese cinesi: affermazione difficile da controllare. A metà degli anni Settanta le aziende private contavano per lo 0,3% ell’occupazione; oggi devono essere passate almeno al 20%. A livello ufficiale si parla ancora di “economia socialista di mercato”. Alcuni anni fa si diceva “quasi di mercato”. Nelle sezioni meno sviluppate, il Tibet per prima, l’impresa statale resta sempre dominante. I crescenti legami con partner internazionali prevalentamente capitalistici sono fatti per rafforzare i contorni privatistici del sistema cinese.
La cosa facile è descrivere tale sistema come un mix di imprese statali, cooperative e private, sia cinesi sia straniere. Il difficile è accertare le proporzioni. Le grandi Comuni agricole, fino a 25 mila soci, sono divenute cooperative di villaggio, nelle quali il ruolo dei singoli contadini si è sensibilmente rafforzato.
L’agricoltura, nelle pianure sempre più produttiva, ha alimentato in misura determinante lo straordinario sviluppo industriale e dunque la crescita spettacolare dell’economia. Date le sue dimensioni territoriali (9,5 kmq) è logico che la Cina detenga numerosi primati settoriali: p.es. ha una suinicoltura da mezzo miliardo di capi. Pur non essendo un paese di boschi, la Cina è seconda solo agli Stati Uniti per le produzioni forestali, nell’ultimo quindicennio cresciute quasi del 50%.
Lasciando l’agricoltura, è da sottolineare che la Cina estrae quasi un terzo di tutta l’antracite, il migliore dei carboni, del pianeta. Il settore del carbone produceva 700 milioni di tonnellate nel 1983; nel 2003, 1.177 milioni. Anche per la generazione elettrica la Cina è seconda solo agli Stati Uniti, mentre contende a questi ultimi il primo posto assoluto per varie produzioni chimiche. Vistosi gli incrementi dei comparti manufatturiero e minerario. Si veda l’acido solforico: 9 milioni di tonn. nel 1982, 30 milioni nel 2001. Tutto ciò acquista uno speciale rilievo alla luce delle stime, fatte già negli anni Novanta, iperboliche eppure significative, secondo cui la Cina potrà produrre ‘tutto’ ciò che servirà al mondo. Il collettivismo non è fallito là dove il retaggio culturale ha consentito articolazione, sofisticazione ed anche capacità di emendare gli errori più gravi. Il retaggio culturale della Cina non potrebbe essere più alto.
Il boom delle infrastrutture è dovuto anche qui all’iniziativa pubblica. Il terminal dell’aeroporto di Pechino è terzo al mondo. All’arrivo degli europei, nella seconda metà dell’Ottocento, Pechino si era ridotto a piccolo centro. Con dati così clamorosi sarebbe facile la tentazione di considerare superuomini i gestori dell’economia cinese. Però sarebbe tentazione pericolosa. La grande edificazione nazionale ed economica cominciò 62 anni fa, con la proclamazione della repubblica rossa. Ma strada facendo ci furono il fallimento del Grande Balzo in Avanti, gli sconvolgimenti della Rivoluzione Culturale (“meglio rossi che esperti”), le violente lotte di potere che fra l’altro videro la caduta del presidente della repubblica Liu Shao-chi, e del massimo comandante militare Lin Piao (era stato, dopo Mao, il capo dei maoisti). Sembra certo che alla fine Lin progettò un colpo di stato contro Mao (e morì in circostanze non accertate), mentre a un certo punto fu Mao a tentare di rafforzare la mobilitazione dei giovani, non abbastanza secondata da operai e contadini, con un vero assalto militare alle istituzioni.
Quasi tutto cambia con la morte di Mao (1976). L’avvento di Deng (1978) segna la grande svolta a destra, nella quale la parola d’ordine è ‘Arricchitevi’. E’ l’opposto diametrale del sinistrismo, del rifiuto assoluto della proprietà individuale, della tecnocrazia, rifiuto che Mao aveva rilanciato nella sua fase ultima. Acquista così valore la quadripartizione della storia cinese contemporanea proposta da alcuni storici: economia semicoloniale/semifeudale tra 1911 e 1949; comunismo maoista fino all’ascesa di Deng Siao-ping; accelerazione modernizzatrice e apertura al mercato fino a metà degli anni Novanta; infine esplosione produttiva.
Uno dei corollari che hanno affiancato le ultime due fasi sembra la tacita tolleranza della corruzione: essa contribuisce a proteggerci alquanto dalla tentazione, pur logica, di accettare molti degli insegnamenti che vengono dal Regno di Mezzo.
La realtà cinese d’oggi è l’opposto di quella proiettata dalla Rivoluzione Culturale. L’ultimo maoismo non avrebbe potuto essere ripudiato di più. Al di là delle esegesi ideologiche, è difficile negare al pensiero di Mao nei suoi ultimi dieci anni un carattere di delirio e di rifiuto della realtà.Eppure fuori della Cina quel delirio affascinò gli intellettuali e quanti li orecchiavano. Non fu semplice culto della personalità, fu autentica divinizzazione di Mao. Oggi, al contrario, c’è chi sostiene che Mao fece morire a vario titolo molti milioni di persone. Tra esse fu probabilmente Lin Piao, il maresciallo che durante la Rivoluzione Culturale esaltò la grandezza del ‘Pensiero di Mao’. Se tanta grandezza non fosse stata smentita dal fiasco del Grande Balzo in Avanti, poi della Rivoluzione culturale, forse oggi molti proporrebbero la ricetta per fare ripartire la crescita dell’Occidente: fare come i cinesi col loro perpetual boom. Il cinese Sinopec Group è cresciuto l’ultimo anno del 45%: ora è quinta tra le 500 corporations di Fortune. Ma per numero di dipendenti è più importante la China National Petroleum: quasi 1,7 milioni di persone.
A.M.Calderazzi
già dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale