Intervistato il giorno stesso che gli Stati Uniti hanno perso l’insegna ammiraglia dell’economia planetaria, lo storico Paul Kennedy, ‘studioso della fine delle potenze mondiali’, e così una specie di Gibbon del nostro tempo, ha espresso un certo ottimismo: “L’America si ridimensionerà. Si ritirerà dall’Irak e dall’Afghanistan, non manderà più eserciti smisurati in Medio Oriente e in Asia. Manterrà i suoi impegni con la Nato e il Giappone, ma non aprirà nuovi fronti come la Libia (…) La crisi attuale conferma il declino degli USA. I loro capi dovranno gestirlo con intelligenza, in modo da renderlo il più graduale e tollerabile possibile (…) La durata degli imperi, anche di quelli ‘benevoli’ come si dice dell’America, si riduce sempre più. L’Olanda e l’Inghilterra tramontarono dopo avere eclissato la Spagna, ma seppero evitare sia un collasso improvviso, sia un declino graduale ma catastrofico. La decadenza delle grandi potenze può durare secoli, se gestita bene: l’impero degli Asburgo cominciò a declinare 300 anni prima della sua scomparsa”.
Nell’assieme il ragionamento è giusto. Però lo storico di Yale avrebbe fatto meglio a lasciar perdere l’esperienza degli Asburgo. L’Austria degli Asburgo era amata da molti, ammirata o rispettata da quasi tutti, nemici compresi. Saggezza diplomatica e amministrativa, moderazione, equilibrio e il senso che noblesse oblige erano caratteri precipui della sua azione internazionale: Non sono pochi coloro che nei paesi già soggetti rimpiangono (o affettano di rimpiangere, che è lo stesso) i tempi in cui Austria felix regnava. Vienna non aveva bisogno di muovere guerre incessanti, non di sterminare i civili nel nome di un delittuoso diritto di provocare collateral damages. L’America del passato lontano fu, a ragione o a torto, la fidanzata del mondo. Quella di oggi è la nemica del mondo, una nazione canagliesca.
Cominciò Franklin Delano Roosevelt a mentire in grande quando affermò che a Pearl Harbor il Giappone aveva attaccato a tradimento, laddove per tutto il 1941 egli FDR aveva fatto l’impossibile per provocare l’attacco nipponico, e così trascinare in guerra l’America isolazionista. Uno dei suoi successori, John F. Kennedy, riprese in Indocina il bellicismo rooseveltiano, giustificato (nel 1961 come nel 1941) come impresa di liberazione. Gli ultimi presidenti, dai due Bush (in modo diseguale) a Obama hanno portato avanti la logica di un espansionismo wilsoniano-rooseveltiano così esasperato da suscitare, in aggiunta all’odio e alla disistima del mondo, il parossismo dell’indebitamento USA.
Se la contrapposizione a GW Bush, se cioè il meglio di una presa di coscienza americana, è rappresentata dal Barack Obama signore dei ‘drones’, grottescamente insignito del Nobel per la pace da stralunati o rimbambiti soloni scandinavi, allora è certo che gli Stati Uniti, se mai un po’ si ravvederanno, lo faranno perché schiacciati dal debito, non per una scelta di saggezza. Di tale scelta non saranno capaci. Con tutte le vanterie circa le loro grandi università, grandi think tanks, grandi centrali di intelligenza e di intelligence, gli USA è come fossero caduti in una sorta di demenza pseudo- o tardo-imperiale.
Per essere impero occorre essere all’altezza. Gli Stati Uniti non hanno compiuto opere grandi fuori dei loro confini. Hanno vinto guerre quando la loro capacità di ‘overkill’ era smisurata. Nell’Afghanistan non è smisurata (anche per scarsità di fondi), dunque non vincono. Lo storico Paul Kennedy si dichiara d’accordo con Charles Kupchan, l’autore de La fine dell’era americana, il quale sostiene che il declino dell’Occidente è anche culturale. Di suo, Kennedy aggiunge: “Non molti anni fa si pensava che il mondo intero avrebbe accettato i valori occidentali. Non è stato così. Ci sono popoli che sembrano preferire regimi autoritari, o che interpretano la democrazia in modo diverso dal nostro”.
E, diciamo noi, fanno bene a non curarsi del nostro modo. Se la democrazia è ciò che abbiamo (=cleptocrazia, partitocrazia, sopraffazione del denaro, impostura permanente, pensiero unico impostato attorno al consumismo), ottima cosa è fare diversamente da noi. E ancora più sfrontata risulta la tesi -che in pochi dissennati è onesta convinzione- che le guerre degli USA e dei loro ausiliari ed ascari vengano intraprese per esportare democrazia e libertà.
Il bellicismo statunitense cominciò nel 1846, fingendo che nel West il Messico malmenasse gli allevatori e i pionieri americani, Ne risultarono l’annessione di California e New Mexico e il vasto allargamento del Texas. Cinquantadue anni dopo, guerra alla Spagna colpevole di non dare l’indipendenza ai creoli cubani (filoamericani). Risultato, acquisto di Cuba, Puerto Rico e Filippine, in simultanea coll’impossessamento delle Hawaii e di Samoa. Solita motivazione: la monarchia indigena non si comportava bene. Dopo frequenti spedizioni dei Marines nei conflitti intestini del Messico e dell’intero bacino dei Caribi, nel 1917 il virtuoso presidente Woodrow Wilson riuscì a realizzare l’intervento nella Grande Guerra, atto fondante dell’impero mondiale USA. Finito il conflitto l’isolazionismo che il padre della patria George Washington aveva predicato si mise di traverso: il paese non condivise il progetto di ordine mondiale congegnato da Wilson. Ci vollero la miseria della Depressione, il semifallimento del New Deal e il mendacio del Grande Guerrafondaio (FDRoosevelt) per rendere possibile la partecipazione al secondo conflitto mondiale e il trionfo imperiale del 1945.
Molto meno fortunati furono quei presidenti che più ambirono ad emulare con la strapotenza delle armi il Volpone della Carta Atlantica e di Pearl Harbor: da JFKennedy a GWBush a Barack Obama. A quest’ultimo, il più maldestro dei Diadochi di Franklin Delano, è toccato di regnare ultimo della serie della grandezza: una specie di Romolo Augustolo deposto da Odoacre. Gli imperi di un tempo duravano millenni. Un magro settantennio dopo le fandonie della Carta Atlantica, l’Impero americano porta i libri al tribunale della storia.
A.M.Calderazzi