DALLA PRIMA ALLA SECONDA REPUBBLICA

A rischio il consuntivo dei 150 anni

Dei 150 anni finora trascorsi dall’unificazione dell’Italia in uno Stato nazionale indipendente la prima metà abbondante sfociò nella catastrofe materiale e morale del secondo conflitto mondiale, la cui responsabilità ricade sul regime fascista generato dalla precedente “grande guerra” (vedi in proposito l’Internauta di luglio-agosto). Altri conflitti pur meno immani, partecipati o ingaggiati dal giovane Stato, già avevano contribuito non poco a turbarne più o meno gravemente la vita. Si può ben dire quindi che dalla cessazione di impegni bellici per di più prevalentemente fallimentari sul piano militare potevano derivare solo vantaggi, anche se i fallimenti erano a loro volta attribuibili almeno in parte a carenze di quello che oggi si chiama sistema-paese.

Non sembra comunque un caso che i progressi maggiori, veri e propri salti di qualità e conquiste storiche, come il raggiungimento di un relativo benessere e l’eliminazione dell’analfabetismo, siano stati compiuti nel periodo posteriore al 1945, caratterizzato da una lunga pace sul fronte esterno benché resa precaria e persino “calda” dalla cosiddetta guerra fredda tra Est e Ovest con annessa e costante minaccia di un apocalittico conflitto termonucleare. Questo stesso contesto internazionale, come sappiamo, era così fortemente condizionante da scoraggiare qualsiasi iniziativa e tentazione bellica anche a carattere locale o comunque limitato, che tornarono infatti ad agitare la scena europea (altrove non vi fu stasi) solo dopo la fine di quell’epocale confronto.

Altri risvolti favorevoli di un simile contesto si ritrovano nell’interesse degli Stati Uniti, leader dello schieramento occidentale, a rafforzare sotto ogni aspetto i paesi alleati, compresi quelli appena vinti in guerra, per meglio fronteggiare insieme la sfida del mondo comunista, e nell’interesse degli stessi alleati a stringere i loro legami al medesimo scopo. L’Italia potè così fruire prima degli aiuti economici e finanziari americani dispensati nel quadro del Piano Marshall ai fini della ricostruzione post-bellica e del decollo del proprio sviluppo, e poi dei molteplici vantaggi ricavati dalla partecipazione al processo di integrazione economica dell’Europa occidentale.

Non va inoltre dimenticato che in Italia, come in tutto l’Occidente, la suddetta sfida giocò un ruolo tutt’altro che secondario nel rafforzare la spinta a promuovere, insieme allo sviluppo economico, anche adeguate soluzioni dei problemi spesso gravi di giustizia sociale per non lasciare fianchi troppo scoperti alla contestazione e agli allettamenti del grande avversario politico e ideologico, reso tanto più temibile dalla potenza militare dell’Unione Sovietica almeno fino a quando le molteplici pecche del “primo Stato socialista del mondo” non divennero sempre più evidenti anche agli occhi di chi soggiaceva più ciecamente al suo fascino.

In Italia, anzi, questo fattore fece sentire il suo peso più che altrove data la complessiva, maggiore arretratezza e fragilità rispetto ai paesi con i quali essa generalmente si confrontava e si confronta, con conseguente e imponente presenza di quello che diventò e rimase per decenni il maggiore partito comunista del mondo occidentale. Naturalmente, e per contro, ciò conferiva una particolare asprezza alla dialettica politica interna, che rischiò infatti a più riprese, soprattutto nella fase iniziale del dopoguerra, di sconfinare in scontro aperto, al limite in una nuova guerra civile.

Se questo pericolo, tuttavia, fu scongiurato, lo si dovette non soltanto agli oggettivi condizionamenti di cui sopra ma anche alla capacità dimostrata dai capi degli opposti schieramenti di padroneggiare una problematica così ardua con senso di responsabilità, reciproca moderazione al di là delle violenze polemiche e una disponibilità al compromesso anche costruttivo, quando necessario, come nel caso della Costituzione democratica e repubblicana del 1947-48. La lezione di De Gasperi e Togliatti, in qualche modo emuli, nella fase più difficile, di Giolitti e Turati mezzo secolo prima, non venne dimenticata e fu semmai ulteriormente sviluppata dai rispettivi successori, però in forme e con percorsi più tortuosi ed ambigui, anche a causa della comparsa di un’aspirante terza forza rappresentata dal partito socialista di Craxi.

Il grande compromesso storico preconizzato da Gramsci e rilanciato in qualche modo da Berlinguer verso la fine degli anni ’70 non giunse comunque mai in porto anche perché se ne sentiva sempre meno il bisogno, in un contesto internazionale ormai avviato a cambiare radicalmente. Il tracollo finale del blocco orientale ebbe il duplice effetto di minare sia le fondamenta quanto meno storiche dell’egemonia democristiana sul vittorioso schieramento anticomunista sia la consistenza e il credito di un’alternativa comunista quantunque riveduta e corretta. La susseguente crociata anticorruzione di Mani pulite spazzò via il PSI e mise in ginocchio la DC fino a frantumarla ma non bastò a consegnare il potere alla sinistra, vecchia o nuova che fosse.

Nata dunque da una duplice scossa tellurica e mai riuscita poi a liberarsi da una cronica instabilità e sostanziale inconcludenza, la cosiddetta seconda repubblica doveva in realtà scontare l’eredità per molti aspetti pesante della prima oltre alle svariate asperità del nuovo ordine internazionale e, naturalmente, alle proprie carenze congenite o sopravvenute in aggiunta a tradizionali difetti o vere e proprie tare nazionali.

Difficile dire se nel bilancio consuntivo della classe politica che gestì la prima repubblica prevalsero i meriti oppure i demeriti. In testa ai primi campeggia quello di aver saputo guidare il paese in un processo di crescita senza precedenti in ogni settore malgrado la profonda spaccatura politico-ideologica della sua anima. Ma non meno meritorie furono la conduzione di una politica estera tendenzialmente equilibrata ed aperta pur nel quadro dell’appartenenza all’alleanza atlantica, la graduale benché a tratti estremamente contrastata acquisizione al gioco democratico anche della rappresentanza solo inizialmente modesta dei nostalgici del fascismo e, a cura delle intere maggioranze governative, la preservazione della laicità dello Stato malgrado la professione cattolica del partito dominante.

In campo economico, tuttavia, la crescita procedette con slancio solo finchè propiziata, insieme agli altri fattori esterni già menzionati, dal basso prezzo di una fonte energetica essenziale come il petrolio. Tenuto conto delle ingenti accise imposte sulla sua commercializzazione, non si mancò di ironizzare sulla repubblica fondata su di esso, anziché sul lavoro come voleva la Costituzione. Non a caso i dolori cominciarono negli anni ’70, quando il mondo dovette subire due crisi consecutive provocate da bruschi rincari dell’”oro nero”.

L’Italia, in particolare, le scontò con un sensibile rallentamento della crescita e il divampare di un’inflazione che giunse a superare il 20%. A smorzarla concorsero in seguito soprattutto ulteriori mutamenti esterni, che non bastarono però ad impedire un nuovo e più duraturo sbandamento, mai veramente combattuto e perciò via via aggravatosi: l’accumulazione di un gigantesco indebitamento pubblico, senza uguali tra i grandi paesi più avanzati con la sola eccezione del Giappone. Sulla scia di una crisi planetaria di cui ancora non si intravede l’esaurimento, esso fa incombere addirittura lo spettro della bancarotta di Stato.

L’aumento delle difficoltà economiche frenò, comprensibilmente ma forse non del tutto inevitabilmente, la riduzione del divario tra Nord e Sud, inizialmente agevolata dalla massiccia emigrazione interna dalle terre meridionali in concomitanza con l’imponente attività della Cassa del Mezzogiorno, uno strumento concettualmente appropriato per promuovere lo sviluppo ma usato con criteri e finalità specifiche (come l’industrializzazione indiscriminata) per lo meno discutibili quando non inficiati dal clientelismo sistematico, dalla corruzione e dai compromessi con la criminalità organizzata.

Col passare del tempo il processo si arrestò e addirittura si invertì, mentre crebbero parallelamente i traffici delle mafie, il loro controllo sul territorio e la protervia della loro sfida ad uno Stato troppo spesso, come minimo, tollerante, assente o imbelle. Da ultimo, il complessivo aggravamento della questione meridionale contribuì alla comparsa di una questione settentrionale, sollevata da una Lega nord ondeggiante tra autonomismo e separatismo ma comunque lanciata a colmare in qualche misura il vuoto lasciato dalla DC.

Un altro antico male nazionale, l’evasione fiscale, dilagata anch’essa di pari passo con la crescita economica e mai programmaticamente combattuta come del resto la corruzione, è ovviamente divenuto tanto più deleterio quando si è dovuti passare a difendere dalle successive crisi i progressi compiuti negli anni ’50 e ’60 e a parare la minaccia di ricadute all’indietro. E qui, per la verità, la classe politica, con tutte le sue manchevolezze, ha dovuto fare i conti con un paese forse complessivamente migliore di lei ma per certi aspetti o in certi momenti peggiore, al di là del fatto lapalissiano di averla espressa, ormai da molti decenni, libero da presenze e imposizioni straniere.

Quasi esplicitamente approvata dall’attuale presidente del Consiglio, l’evasione fiscale non suscita particolare scandalo presso l’italiano medio anche quando si lamentano sperequazioni tra le diverse categorie di contribuenti. Certo ne suscita meno che altrove, dove sarebbe difficile trovare equivalenti del vecchio adagio nazionale “piove, governo ladro”. Lo stesso vale, anzi vale ancor più per la corruzione, che vede l’Italia ai primissimi posti nell’Europa occidentale e che sembra attirare scarsa o nessuna attenzione anche da parte dell’opinione pubblica più o meno qualificata e dei media che denunciano quotidianamente gli inverosimili privilegi e l’insaziabilità della “casta”. E ciò mentre un paese come l’India, a proposito di caste, contro la corruzione inscena oggi una sollevazione popolare.

Si tratta di abiti ovvero storture mentali per le quali si possono trovare le più diverse spiegazioni più o meno persuasive, compresi un atavico fatalismo, la rassegnazione, il cinismo, ecc. Esistono però anche altre singolarità nazionali, ugualmente negative ma di tipo diverso se non opposto. Come spiegarsi il terrorismo di estrema sinistra scatenatosi negli anni ’70, sulla scia della contestazione giovanile del ’68, e protrattosi molto più a lungo ma soprattutto con dimensioni molto più ampie e con un bilancio di sangue molto superiore rispetto ad altri paesi occidentali? I suoi capi incitavano, invano, alla rivoluzione proletaria, proprio mentre il vituperato regime reazionario adottava uno Statuto dei lavoratori che innalzava la tutela dei loro diritti a livelli senza uguali, si scioperava sempre più senza freni, si voleva rendere il salario variabile indipendente e si discettava spesso su quello del tempo libero come un problema prioritario.

Non stupisce perciò la ricerca, peraltro vana, di ispirazioni e finalità del fenomeno diverse da quelle dichiarate, di mandanti nascosti e più o meno insospettabili; lo sforzo, insomma, di smascherare quelle “trame oscure” e quei complotti che in qualche altro caso, in effetti, furono anche appurati, ma quasi mai in misura del tutto esauriente e senza mai uscire da un clima morboso al limite della paranoia. La grande maggioranza del paese, in compenso, conservò nonostante tutto, come si usa dire, i nervi saldi, continuando anzi a dare ulteriori prove di multiforme e costruttiva vitalità e mostrandosi impermeabile alle suggestioni estremistiche di qualsiasi colore. Facilitò così la resistenza praticamente compatta e alla fine, se si vuole, vittoriosa che la classe politica riuscì ad opporre all’offensiva terroristica, pur con qualche dissenso al vertice in alcuni momenti culminanti come l’assassinio di Aldo Moro e malgrado il troppo tempo occorso per stroncarla.

Ancor più tempo dovette trascorrere, invece, affinché il governo potesse vantare successi di qualche rilievo nella repressione della criminalità organizzata. Una lotta, in verità, mai sembrata abbastanza risoluta e limpida in ogni sua fase ed aspetto (basti ricordare le ombre addensatesi sull’assassinio del generale Dalla Chiesa e dei giudici Falcone e Borsellino), e successi che mai sono parsi definitivi o anche solo tali da avvicinare la soluzione del problema. Il quale, già reso più complesso dall’apparente conversione delle mafie a pratiche più sfuggenti e sofisticate, più di recente si è semmai ampliato geograficamente, all’insegna dell’affarismo, con il loro insediamento in varie aree del Settentrione.

Confrontata anch’essa con questo autentico flagello nazionale come con gli altri, la seconda repubblica presenta un bilancio complessivo ancora provvisorio la cui voce più positiva è una pace interna pur sempre relativa ma comunque migliorata rispetto al passato ed anche in confronto ad altri paesi. Una pace, tuttavia, accompagnata da perduranti o nuove turbolenze e sulla quale soprattutto incombono una serie di minacce anche esterne. Nel ventennio a cavallo del cambio di secolo il successo più vistoso, del paese e dei suoi governanti, è stato il laborioso ingresso nella zona euro, benché vecchi vizi nazionali abbiano fatto sì che se ne sia largamente e impunemente approfittato per raddoppiare i prezzi.

L’adozione della moneta unica doveva aiutare a far quadrare i conti statali malgrado l’onere del debito pubblico ed in effetti ha assolto questa funzione ma, in modo rassicurante, solo fino a quando la bufera finanziaria ed economica scatenatasi in tutto il mondo occidentale ha finito con l’investire la moneta stessa. Il superamento della crisi tuttora in corso richiede non solo la sua tenuta, a sua volta condizionata dalla coesione dell’eurogruppo, ma anche un adeguato sforzo individuale di risanamento da parte di un paese in oggettiva difficoltà come l’Italia. Una sfida, questa, che l’attuale coalizione governativa ha affrontato sinora con determinazione e razionalità quanto meno dubbie.

Il risanamento dei conti, tra l’altro, presuppone (a quanto generalmente si sostiene e ammonisce, benchè la cosa non sia del tutto pacifica) la ripresa della crescita, che in Italia langue ormai da tempo più che altrove e per rilanciare la quale urgerebbero riforme tuttora latenti. Una prospettiva tutt’altro che implausibile resta perciò, semmai, quella di una inarrestabile decrescita, già minacciata, prima ancora dell’attuale crisi, dalla perdita di competitività del paese sull’arena internazionale.

Sarà possibile scongiurarla con una classe politica renitente a combattere la corruzione perché troppo facile essa stessa ad incapparvi? Chiaramente restìa a ridimensionare i proventi di deputati a Roma e al Lussemburgo, senatori e consiglieri regionali ecc., ingiustificabilmente superiori a quelli di quasi tutti i loro omologhi europei (per di più molto meno assenteisti di loro); a tagliare spese sontuarie come le ambasciate regionali all’estero e a sfoltire il personale spesso pletorico delle amministrazioni locali specie nel Meridione (Napoli con più dipendenti di New York ecc.)? Clamorosamente incapace di porre fine ad emergenze già di per sé inconcepibili come quella dei rifiuti a Napoli e di utilizzare i fondi per le aree più depresse stanziati dall’Unione europea? Messa in grave e multiforme difficoltà da un’immigrazione di gran lunga inferiore a quella accolta dalla Svizzera?

Qui il dubbio, ovviamente, è tanto più di rigore. Resta solo da rilevare che una larga parte delle pecche e macchie appena menzionate chiamano in causa le responsabilità sia dell’attuale maggioranza di centro-destra sia dell’opposizione di centro-sinistra. Entrambe, tra l’altro, hanno concorso a vanificare il vantaggio minimale promesso al paese dalla seconda repubblica rispetto alla prima (e anche al passato prefascista): una maggiore stabilità governativa in virtù di un bipolarismo non anomalo, ossia zoppo, come il precedente e, nelle aspettative, più funzionale di esso.

Un po’ di maggiore stabilità in effetti vi è stata (due sole elezioni anticipate in meno di un ventennio…) ma il bipolarismo non ha tardato a dimostrarsi fasullo, prima da una parte e poi dall’altra, e comunque inefficace e inconcludente. Ha persino consentito, anzi, se non favorito, il profilarsi, per la prima volta dal 1861, di un rischio di disintegrazione del paese, con l’avanzata a lungo impetuosa della Lega almeno potenzialmente e a tratti apertamente secessionista, al nord e la comparsa di speculari tentazioni al sud. Un rischio accresciuto piuttosto che allontanato, si direbbe, da quel tanto di cosiddetto federalismo sinora introdotto o messo in cantiere, anche con la collaborazione del centro-sinistra.

Franco Soglian