Guerre coloniali e guerre mondiali
Ripercorrendo le vicende dell’Italia unita nel suo primo mezzo secolo abbondante di vita (Vedi Internauta di aprile, maggio e giugno) abbiamo appena accennato alle imprese belliche, militarmente poco felici oppure fin troppo facili, ma comunque coronate da successo, che consentirono di estendere il giovane Stato fin quasi a quelli che vengono generalmente considerati i suoi confini naturali. Purtroppo la sua debolezza o, se si preferisce, relativa inefficienza militare doveva trovare ulteriori e penose conferme. Diciamo purtroppo non perché la potenza delle armi costituisca un valore assoluto e primario, così come non lo è il pacifismo ad oltranza, ma perché quello Stato, già nato all’insegna di ambizioni spesso smodate, ancora in tenera età non tardò a voler gareggiare con nazioni ben più consolidate e robuste sotto ogni aspetto benché non necessariamente più attempate (vedi la Germania guglielmina); e ciò con esiti puntualmente disastrosi o quanto meno deludenti e comunque a danno di altre esigenze prioritarie e semmai preliminari.
Passi per Giuseppe Mazzini, promotore di complotti e sommosse, ma profeta e precursore di un nazionalismo italiano non ostile a quelli altrui e offerto anzi come modello ad altri popoli in fase risorgimentale e anelanti ad un’emancipazione che in effetti sarebbe avvenuta guardando spesso all’esempio dato dallo Stivale. Ma che dire di un Vincenzo Gioberti, filosofo e capo di governo sabaudo, cattolico e addirittura papalino, autore di una celebre opera intitolata “Il primato civile e morale degli italiani”, in cui propugnò, prima del “tradimento” di Pio IX, una confederazione italiana presieduta dal pontefice come perno e guida di una confederazione europea? Cavour, che pensava piuttosto a costruire ferrovie e migliorare le tecniche agricole, si guardava bene dal coltivare sogni proibiti e, se fosse sopravvissuto all’unificazione, avrebbe certamente evitato passi più lunghi della gamba. Ma alla tentazione di interpretare la rinascita nazionale richiamandosi all’antica Roma, o almeno alla respublica christiana del Medioevo, molti altri cedevano con grande facilità.
Non riusciamo a concordare con Gianni Fodella (vedi l’Internauta dello scorso marzo) che bolla la precoce vocazione colonialista dell’”Italietta” prefascista come uno dei tanti frutti avvelenati dell’unificazione nazionale. A cimentarsi a sua volta nelle imprese coloniali il nuovo Stato fu ovviamente stimolato dagli esempi altrui, ma nulla lo obbligava a farlo per prevalenti motivi di malinteso prestigio e per di più con le conseguenze perniciose inoppugnabilmente sottolineate da Fodella.
Nel denunciare la recente partecipazione italiana all’intervento militare occidentale in Libia (Corriere della sera, 6 maggio) due eminenti africanisti, Giampaolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi, hanno lamentato che nelle celebrazioni del 150° sia stata trascurata un’esperienza coloniale “che ha avuto una parte così importante nel definire l’identità nazionale e a cui l’Italia dopo tutto deve il suo status di potenza”. Sembrerebbe opportuno precisare che si è trattato di una definizione in senso negativo e che quello status era in realtà fasullo.
In Africa, come tutti sanno, ci si dovette accontentare degli avanzi della colonizzazione altrui. La conquista dell’Eritrea, oltre a non apportare alcun vantaggio tangibile, mise l’Italia in rotta di collisione con l’Etiopia che le inflisse l’umiliante disfatta di Adua, gravida di ripercussioni anche in politica interna. Meno contrastata fu l’acquisizione della Somalia, perduta poi durante la seconda guerra mondiale, riacquistata sotto forma di amministrazione fiduciaria su mandato dell’ONU, divenuta infine indipendente ma oggi caso più unico che raro di paese incapace di reggersi come Stato e in balìa di moderni pirati.
Anche la conquista della Libia, strappata al decrepito Impero ottomano, fu relativamente agevole. Salutata da Giovanni Pascoli, poeta socialisteggiante, con il festoso annuncio che “la grande proletaria si è mossa”, non tardò però a rivelarsi superficiale e costosa a causa dell’accanita e prolungata resistenza delle tribù interne all’occupazione, con conseguente repressione spesso feroce. Risultò inoltre deludente sia perché le sabbie della “quarta sponda” dovevano svelare la loro ricchezza petrolifera soltanto dopo la fine del dominio italiano sia perché “Tripoli bel suol d’amore” (come si cantava allora) e dintorni non potevano proficuamente ospitare più di alcune migliaia di coloni con relative famiglie e dare quindi un contributo più che modesto allo smaltimento del surplus demografico nazionale.
D’altra parte, l’appropriazione della Tripolitania e della Cirenaica doveva in qualche modo compensare la “perdita” (per così dire, all’uso americano) della Tunisia, corteggiata e colonizzata da parte italiana prima che la Francia ingorda ce la soffiasse da sotto il naso con grande scandalo nazionale e, anche in questo caso, con pesanti contraccolpi in politica interna ed estera. La vicenda concorse infatti a provocare un’aspra crisi nei rapporti tra Roma e Parigi, già intensi in ogni campo, sfociata nel rovesciamento delle alleanze, mediante adesione italiana alla Triplice con gli Imperi centrali, e in una vera e propria guerra doganale con la stessa Francia inevitabilmente dannosa soprattutto per la parte più debole.
La vecchia collocazione internazionale del paese si ristabilì dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, che offrì l’occasione per completare l’unificazione nazionale con la “redenzione” delle due città-simbolo di Trento e Trieste. Un’occasione, peraltro, che avrebbe potuto essere sfruttata in modo diverso dalla partecipazione al conflitto a fianco delle potenze dell’Intesa. Così la pensava, tra gli altri, lo statista più autorevole e collaudato di cui disponesse l’Italia: Giovanni Giolitti, secondo il quale dall’Austria-Ungheria si poteva ottenere “parecchio” in cambio della neutralità. Benché ancora molto influente, “l’uomo di Dronero” fu però travolto dalla cieca infatuazione bellicista che colpì il paese e che portò a preferire le munifiche ricompense territoriali (a spese e insaputa altrui) promesse dai nuovi alleati e comprendenti, oltre a mezza Dalmazia, persino un pezzo di Asia minore.
La guerra iniziata nelle “radiose giornate di maggio” del 1915 si protrasse molto più a lungo del previsto, costò parecchie centinaia di migliaia di morti e duri sacrifici per tutti (salvo gli immancabili speculatori) e per di più rischiò, con la rovinosa rotta di Caporetto, di risolversi in una catastrofe. Ci salvarono, certo più che il dubbio talento dei comandanti e gli stessi aiuti militari e finanziari degli alleati, l’abnegazione o quanto meno la capacità di sopportazione della truppa, per quanto mandata spensieratamente al macello, specialmente prima della resistenza sul Piave, e soprattutto il progressivo cedimento dello schieramento nemico, in crescente difficoltà sugli altri fronti e indebolito, in particolare sul nostro, dall’incipiente disintegrazione dell’Impero asburgico.
Ma se quella di Vittorio Veneto non fu una vittoria delle più fulgide, decisamente funesti furono i suoi seguiti. La prova comunque durissima del conflitto fece esplodere con violenza i contrasti politico-sociali interni, acuiti da influenze e suggestioni esterne a cominciare da quelle della rivoluzione bolscevica in Russia. Contrasti che, tuttavia, si sarebbero forse potuti superare, con le già sperimentate forme di mediazione e compromesso, se agli altri fattori destabilizzanti non si fosse aggiunta l’arrembante campagna soprattutto fascista, ma più in generale ultranazionalista, contro i responsabili, interni ed esterni, della “vittoria tradita”, “mutilata”, ecc.
I governanti stranieri, con in testa il presidente americano Wilson, vennero infatti esecrati per il mancato mantenimento di quanto promesso negli accordi di alleanza, addebitando corrispettivamente agli esponenti democratici domestici una difesa non abbastanza ferma dei veri o presunti interessi nazionali. Si creò così un clima propizio al successo finale del partito fondato e capeggiato dall’ex socialista Benito Mussolini, ancorchè agevolato fin che si voglia dalla sua sottovalutazione anche da parte di personaggi come lo stesso Giolitti, dalle paure o dai calcoli dei ceti più abbienti e/o più reazionari, dalla pavidità di Vittorio Emanuele III, e così via.
Tra gli interessi nazionali propugnati dall’estrema destra poteva legittimamente rientrare la rivendicazione della città di Fiume, l’odierna Rijeka croata abitata allora da una maggioranza italiana e la cui annessione al regno non era stata tuttavia prevista dal patto segreto di Londra. Gli alleati obiettarono, non a torto, che l’Italia pretendeva qui l’applicazione del principio di nazionalità, particolarmente caro a Wilson, dopo avere chiesto ed ottenuto il Sud Tirolo o Alto Adige, a maggioranza tedesca allora schiacciante, in base al criterio del confine naturale. Il governo di Roma non insistette e stroncò con la forza, e con qualche vittima, il tentativo di Gabriele d’Annunzio e dei suoi legionari di creare il fatto compiuto occupando la città contesa.
Nonostante questa lacerazione intestina, Fiume finì ugualmente in mano italiana col consenso più o meno forzato della neonata Jugoslavia, che in compenso ottenne la riduzione delle acquisizioni italiane in Dalmazia alla sola città di Zara e ad un paio di isole. Ma neppure un simile frutto della vittoria, definitivamente formalizzato con il fascismo ormai al potere, parve soddisfacente agli ultranazionalisti nostrani, tanto che lo stesso governo di Mussolini fu accusato dagli irredentisti più accesi di avere tradito una causa sacrosanta. Da notare, al riguardo, che con il nuovo assetto territoriale rimasero al di là del confine solo poche diecine di migliaia di italiani, mentre vennero a trovarsi in Venezia Giulia oltre 400 mila sloveni e croati contro meno di mezzo milione di italiani. Compresa Zara, la minoranza slava sarebbe poi scesa a malapena al di sotto del 40%, secondo il censimento del 1939, malgrado le persecuzioni e la politica di snazionalizzazione.
Come la pensasse su tutto ciò il futuro Duce l’aveva chiarito senza mezzi termini durante una visita alle terre orientali nel settembre 1920: “Di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino ma quella del bastone. I confini dell’Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo si possano sacrificare 500 mila slavi barbari a 50 mila italiani”. Dopo la Marcia su Roma il nuovo regime tenne peraltro a freno la propria vocazione espansionistica nell’area balcanica, dove imboccò anzi un indirizzo alquanto contraddittorio fomentando e sostenendo anche materialmente il nazionalismo e separatismo croato, cioè del diretto e principale antagonista, contro l’egemonismo serbo nella Jugoslavia monarchica. Certo ciò contribuì a facilitare il crollo di quest’ultima durante la seconda guerra mondiale, che vide tuttavia nascere lo Stato croato degli ustascia, satellite soprattutto del Reich nazista e pronto a sfruttare, nel 1943-1945, l’occasione sia pure effimera, per esso, di regolare i conti storici con l’Italia.
Artefice di una rivincita nazionale sarebbe stata invece la Jugoslavia comunista, nata da una vigorosa resistenza sul campo alle armate naziste e ben piazzata, dunque, per guadagnarsi al termine del conflitto, con l’appoggio della potenza sovietica, la restituzione, dal punto di vista dei vicini orientali, di quasi tutto ciò che l’Italia sconfitta aveva tolto loro vent’anni prima. Per non parlare, naturalmente, delle annessioni seguite all’invasione del 1941 e comprendenti persino l’odierna capitale slovena, Lubiana, ridotta a capoluogo di una nuova provincia del regno benché totalmente priva di qualsiasi presenza italiana. E qui, almeno, i facili conquistatori fascisti, a differenza di quelli tedeschi impadronitisi del grosso della Slovenia, ebbero il buon senso di lasciare municipi e scuole in mano locale, anche se ciò non bastò ad ingraziarsi una popolazione fieramente nazionalista la sua parte. Tanto nazionalista, anzi, da lamentare poi la “perdita”, per la seconda volta, di Trieste, spesso descritta anche più di recente come la propria maggiore città benché abitata solo da una minoranza slovena piccola ma superiore, un tempo, alla popolazione di Lubiana. Trieste, infatti, fu quasi tutto ciò che l’Italia post-fascista riuscì a salvare, a fatica, da rivendicazioni jugoslave a loro volta tendenzialmente insaziabili.
Effimera fu naturalmente anche l’annessione dell’Albania, sottomessa senza colpo ferire alla vigilia dello scoppio del conflitto mondiale e già in un clima di ansiosa competizione espansionistica con la Germania di Hitler. Alla quale l’Italia di Mussolini, peraltro, si stava via via legando a doppio o triplo filo sin dalla breve guerra coloniale con la quale, pochi anni prima, aveva conquistato l’Etiopia, vendicando così Adua, realizzando il sogno imperiale insito nell’ideologia del regime e però compromettendo i rapporti con le altre potenze europee e privandosi in tal modo della libertà di manovra vitale per una potenza che restava, malgrado le spacconate del Duce, di serie B.
Che quello italiano fosse un imperialismo di cartapesta, o nella migliore delle ipotesi un aspirante sub-imperialismo, lo dimostrò platealmente il fallimento dell’attacco alla Grecia (che da una efficace resistenza passò addirittura alla controffensiva penetrando in territorio albanese), giustificabile solo con l’insensato anelito ad emulare le imprese della Wehrmacht, dopo l’analogo insuccesso militare della “pugnalata alla schiena” inferta alla Francia ormai agonizzante. Già le prime battute dello scontro bellico evidenziarono per il resto la scontata inferiorità navale ed aerea nei confronti della Gran Bretagna, che si manifestò presto anche sul fronte terrestre nordafricano, dove neppure il soccorso tedesco e le prodezze di un fulmine di guerra come il generale Rommel bastarono a scongiurare il tracollo finale.
Nel frattempo, qualche episodica dimostrazione di valore e capacità militari (la tenace difesa dell’Amba Alagi al comando del duca d’Aosta in Etiopia, quella dell’oasi di Giarabub in Libia, l’ultima resistenza delle divisioni del maresciallo Messe nella ridotta tunisina contro preponderanti forze anglo-americane) non aveva potuto impedire la rapida perdita di tutte le colonie vecchie e nuove. Dal canto suo, l’inutilmente massiccia partecipazione alla campagna di Russia aveva messo nuovamente in luce, di positivo, soltanto la forte fibra e le qualità umane dei nostri soldati, alpini ma non solo, documentate nelle pagine indimenticabili di Mario Rigoni Stern. Soldati che combattevano, in condizioni estreme, non per spazzare via il bolscevismo bensì per “tornare a baita”.
Ogni voglia di lottare praticamente cessò, tuttavia, quando il poderoso schieramento avversario, che un Mussolini ormai vaneggiante prometteva di bloccare sul “bagnasciuga” siciliano, portò la guerra sul suolo nazionale, contrastato per quanto possibile solo da parte tedesca. E qui iniziò il capitolo finale dell’avventura bellica, rovinoso in termini materiali e ancor più indecoroso politicamente e moralmente. Nell’estate del 1943 il sovrano e la sua corte trovarono finalmente il coraggio per rovesciare la dittatura con la collaborazione dei vertici dello stesso partito fascista e delle forze armate e quindi troncare il legame con la Germania. Il modo irresponsabile in cui venne attuata la scelta armistiziale sotto ogni aspetto, compresi i comportamenti individuali quale la precipitosa fuga da Roma della famiglia reale e del maresciallo Badoglio nuovo capo del governo, lasciando esercito e marina senza direttive adeguate e abbandonando di fatto il paese alla sua sorte, mise a nudo il vuoto che si celava sotto gli orpelli del caduto regime ma squalificò in partenza anche gli uomini ed ambienti che l’avevano liquidato.
Fu in sostanza una rinuncia all’esercizio del potere che diede a luogo ad un generale si salvi chi può e poi alla guerra civile, nel nord in mano nazista, tra le formazioni partigiane mobilitatesi contro l’occupante e la “repubblica sociale” con cui Mussolini tentò di resuscitare il fascismo, mentre più a sud truppe italiane agli ordini del governo monarchico combattevano a fianco degli alleati lentamente avanzanti. L’epilogo era scontato, ma per arrivare alla pace e al definitivo esaurimento dell’esperienza autoritaria e ultranazionalista, macchiata tra l’altro dall’adesione all’antisemitismo genocida del Reich, dovettero trascorrere quasi due anni di lutti e distruzioni, anche ad opera di micidiali bombardamenti anglo-americani su obiettivi civili, che colpirono duramente, ad esempio, il centro storico di Milano.
Una delle peggiori catastrofi della storia nazionale segnava così la conclusione di un’era ultraventennale il cui bilancio, peraltro, sarebbe stato prevalentemente negativo anche se si fosse chiuso prima della fatale estate del 1940. Il regime fascista ebbe indubbiamente la sfortuna di doversi misurare con la Grande depressione mondiale, che non poteva ovviamente risparmiare un paese economicamente fragile come l’Italia. Ma ad aggravare i danni di origine esterna sopraggiunse l’autolesionistimo di una politica autarchica che, incoraggiata quanto si voglia dal contesto internazionale, un paese privo di materie prime poteva permettersi meno di qualsiasi altro e che invece adottò anche perché consona ai suoi indirizzi di politica estera.
Crescita e modernizzazione, certo, proseguirono e anzi si accentuarono. L’apparato industriale si rafforzò, la rete stradale e quella ferroviaria si estesero sensibilmente e così pure l’elettrificazione. L’urbanizzazione continuò malgrado il divieto ai contadini (decretato nel 1930 quasi ad imitare l’esempio di Stalin in Russia) di abbandonare le campagne senza il permesso dei prefetti; Roma e Milano raggiunsero nel 1943 una popolazione superiore di circa sette volte a quella del 1871. Le legislazione sociale fece ulteriori progressi benché sbilanciata a favore della promozione della natalità, che rimase però deludente almeno agli occhi del Duce, convinto che il numero garantisse potenza.
Una delle realizzazioni più imponenti del regime furono le opere di bonifica delle terre improduttive, già in corso a partire dal 1870 ma effettuate per l’80%, fino a tutto il 1937, dopo il 1923. Ciò consentì il raddoppio della produzione di grano, tra il 1870 e il 1939, e la riduzione del 75% della sua importazione. Il tutto, però, a caro prezzo, perché il cereale domestico costava il doppio di quello americano e la priorità conferitagli danneggiò altri prodotti agricoli importanti. D’altra parte, la quota del latifondo rimase elevata, quella dei braccianti pure e le retribuzioni dei contadini in generale diminuirono analogamente ai consumi alimentari.
Nel 1936, su una popolazione attiva appena superiore al 43%, gli addetti all’agricoltura (48%) superavano ancora largamente la manodopera industriale (29%), e il divario, ormai quasi annullato nel Nord computando anche i trasporti e le comunicazioni, rimaneva invece assai ampio nel Centro e nelle isole e parecchio superiore al doppio nel Sud. I salari dei lavoratori italiani, nel 1930, risultavano essere i più bassi dell’Europa occidentale, mentre l’analfabetismo si era sensibilmente ridotto ma restava ancora ben presente.
Le condizioni di vita in cui l’Italia fascista e imperiale venne lanciata ad affrontare le sfide anche tecnologiche di un nuovo immane conflitto si trovano descritte nel bel libro di Marco Innocenti sull’anno 1940: “La gente, a corto di sogni,vive alla giornata, e la vita è così grama, così diversa da come la raccontano i giornali. Povera Italia di povera gente: per tanti la carne è un lusso, la frutta pure, i figli mettono gli abiti rivoltati dei genitori, cuciti di sera nelle macchine Singer a pedali, il ballo, grave peccato sociale, è proibito, il freddo delle case nelle mattine d’inverno è assassino, l’odore di minestra riempie le soffitte, la puzza di cipolla è puzza di miseria e nei campi c’è chi lavora ancora la terra con l’aratro di legno come ai tempi di Cristo”. In simili condizioni, fu già un miracolo che il paese riuscisse a risollevarsi relativamente presto dallo sfacelo in cui precipitò. Merito dello “stellone” di cui si parlava un tempo? Il miracolo, comunque, non sarebbe rimasto l’unico.
Franco Soglian