UN MANTRA EBETE: INVESTIRE DI PIÚ

Ho voluto ascoltare con un sovrappiù di attenzione i dibattiti tra esperti su due futuri: dei giovani che fanno l’università e dell’industria pesante nazionale (partendo dalla débacle della cantieristica). In realtà nessun dibattito. Una proposta unanime: lo Stato investa. Sola divergenza, alcuni chiedono “più” (investimenti), altri “molto di più”.

La Fincantieri non ha ordini, soprattutto perché il mercato internazionale è fermo da anni, e quando si muoverà si rivolgerà ai coreani (30 anni fa erano neofiti della costruzione navale e oggi primeggiano, oltre a tutto con prodotti della qualità più alta) e ai cinesi (40 anni fa non costruivano navi, oggi puntano al primato). La domanda armatoriale europea era il 30% di quella mondiale, ora è il 4%.

La soluzione che si addita per Fincantieri, la sappiamo: investire di più per salvare l’occupazione e non disperdere professionalità. Ossia, produrre navi per le quali non ci sono compratori. Per la cantieristica militare il discorso è un po’ diverso: però, a parte che è vituperevole, dipende da eventuali ordini del Pentagono. Qualcuno suggerisce a Finmeccanica una joint venture con cinesi o coreani o russi: ma la Fiom si opporrà di nuovo, salvo che il partner straniero rinunci a far bene i conti. A Fiom piacerà di più la seguente pensata: l’Eni, cioè lo Stato azionista anche di Fincantieri, si faccia una propria flotta, ordinandola a Monfalcone, sede di Finmeccanica. La proposta è sempre ‘investire’.

Per la disoccupazione dei giovani con laurea, la linea generale non cambia: investire in istruzione e ricerca. Inutile segnalare che l’investimento c’è stato già, visto che gli atenei hanno proliferato e che studenti, professori, viceprofessori e borsisti si sono moltiplicati N volte. Non importa, va investito nell’intelligenza: come se ogni iscritto all’università, magari a Lettere, prometta svolte copernicane e brevetti che vadano a ruba e invertano il declino dello Stivale.

Naturalmente “Investire di più” è il grido che, oltre a levarsi da quasi tutti i settori produttivi, si alza anche da quelli un tempo pù timidi: musei, scuole, cinema, teatro, istallazioni dell’avanguardia, musica, festival estivi, aiuti ai popoli poveri, forze di polizia, difesa dell’ambiente, difesa dei confini, guerre per la democrazia, formazione della classe politica. Giorni fa, nell’illustrare il rilancio di un foglio di partito, il suo amministratore ha annunciato come verità ovvia che esso godrà del finanziamento pubblico. Lungi dal pagare da ciò che saccheggia almeno la propria stampa, la classe politica meglio remunerata e più ladra d’Occidente passa la fattura a Pantalone. Da anni si impongono sacrifici ai cittadini, ma la classe politica, il nostro Mubarak collettivo, non accetta nemmeno un piccolo taglio simbolico. Anzi. Il giurista Pietro Ichino ci ricorda oggi che esiste un extra parlamentino di 120 membri, il Consiglio nazionale dell’Economia e del lavoro, che ha funzioni zero e costi non bassi. Ai giornalisti di regime il Mubarak collettivo fa sostenere che sventrando i costi e i furti della politica si farebbero risparmi irrisori. Logico: tali giornalisti sono fatti della stessa pasta di quelli un tempo inquadrati dal Minculpop.

Per le troppe lauree la sonata è la stessa: impossibile sacrificare tante risorse di intelligenza: bisogna investire. Come se ogni iscritto all’università, magari a Lettere, prometta svolte copernicane e brevetti che andranno a ruba, così invertendo il declino nazionale. A fare la somma di tutte le richieste, l’aritmetica non avrebbe abbastanza zeri, dunque dovremmo investire anche in zeri. E sia, diciamo che la mano pubblica deve farsi carico di tutto, come se lo Stivale intero più le isole sia stato travolto da uno tsunami. Chi si opporrà a salvare la Patria, per di più nel suo sesquicentenario?

Tuttavia: che risorse possiede la Patria? Non un euro che non sia già impegnato. Allora onestà vorrebbe che si dicesse: non lo Stato ma tutti noi abitatori dello Stivale investiremo, esigendo di pagare più tasse. Per completezza occorrerebbe aggiungere -in realtà premettere- che solo una società pentita del benessere e convertita a un mezzo socialismo accetterebbe di iperinvestire.

Io, per dire, accetterei. Non per salvare i jobs della cantieristica né per finanziare cinema, teatro, sport, eccetera. Bensì per garantire un assegno alimentare minimo a tutti i senza lavoro. Il lavoro sarà sempre meno base e condizione dell’esistenza; dove ci saranno figli la collettività dovrà dare loro l’essenziale. Forse dovremo regredire tutti agli stenti di un tempo, quando salire su un tram era un piccolo lusso. Altro che elettronica di consumo e Suv.

Il benessere di oggi e la idolatria del Pil sono stomachevoli (in Internauta di maggio leggere la stringente argomentazione dell’economista Gianni Fodella contro il “Dio Pil”). Cominciamo a svezzarci dal latte tossico degli alti consumi. Disgustiamoci del restare prigionieri nel porcile di Circe.

JJJ