QUANDO NACQUE LA SPAGNA MODERNA

La Spagna di oggi, confrontata con quella della tradizione, è una delle società economiche più avanzate. Ai tempi più alti della grandezza, sotto Carlo V, le carestie erano frequenti al punto che si verificavano casi di cannibalismo. Alla fine dell’Ottocento i pensatori del Rigenerazionismo, spiritualmente tramortiti dalla catastrofe del 1898 (disfatta nella guerra con gli Stati Uniti, perdita di quasi tutto l’impero) erano arrivati a pensare la Spagna come un paese africano (“l’Africa comincia ai Pirenei”), condannato alla miseria, negato all’operosità e all’efficienza economica, digiuno di tecnologia, intimamente incapace di rientrare in quel contesto europeo che nel passato aveva condiviso e in parte dominato.

Il paese lacero di 113 anni fa è oggi, a parte le vicissitudini della fase più recente, più o meno prospero come l’Italia. Se il nostro Nord è la macroregione più ricca d’Europa, la Spagna ha comparti produttivi ben più diffusi di un tempo, quando la ricchezza si produceva solo a Barcellona e a Bilbao. La Spagna è stata vicina a superarci, e qua e là raggiunge traguardi che per noi sono ancora ardui. Se da noi tanti operai hanno il garage, in Spagna pure.

Quali forze, quando, hanno prodotto questa mutazione e quasi palingenesi? Si usa rispondere: la fine del franchismo, l’aiuto americano, l’Europa, l’accelerazione economica del mondo intero. E si sbaglia, in qualche misura. Il riscatto da una continuità arretrata che sembrava condannare per sempre la Spagna cominciò un ventennio prima che Franco morisse: allorquando si cominciò a dire che, pur sempre sotto il Caudillo, erano andati al potere i tecnocrati; che avevano soppiantato la vecchia guardia militare e, diciamo così, ‘falangista’. La prosperità cominciò sì a delinearsi con gli aiuti americani e col turismo di massa, ma anche con lo sviluppo di politiche economiche e sociali avviate negli anni Venti, nei sette anni di dittatura di Miguel Primo de Rivera. Infatti per quei sette anni gli storici parlano di ‘modernizzazione autoritaria’.

La Spagna della monarchia liberale aveva preso a raccogliere i frutti della sacrosanta decisione di non partecipare alla Grande Guerra. La neutralità aveva giovato alle produzioni nazionali. Agli inizi degli anni Venti l’accelerazione produttiva si era delineata, i livelli medi di reddito avevano cominciato a salire. Però i rovesci della guerra coloniale nel Marocco avevano esasperato il conflitto sociale di fondo. La condizione dei lavoratori delle manifatture e dei servizi, cioè delle plebi urbane, migliorava lentamente. Tuttavia il proletariato rurale, misero e specificamente sottoalimentato, aveva recepito la predicazione ribellistica dell’anarchismo, caso unico al mondo, e questo contribuiva ad acuire con gli scioperi politici e con gli atti di violenza lo scontro urbano. I conflitti di lavoro avevano preso la piega dell’insurrezione: nel 1922, quattrocentoventinove scioperi politici. Ventidue i morti nello sciopero generale dei trasporti del maggio-giugno 1923.

La Dittatura di Primo de Rivera smentì le aspettative di quanti si attendevano la pura e semplice repressione della rivolta proletaria. Il generale dittatore deviò bruscamente le linee egoistiche e conservatrici del regime liberal-costituzionale. Impostò una correzione corporativa, intrinsecamente filo-popolare, solo in parte importata dall’Italia di Mussolini: non solo moltiplicò gli interventi pubblici nell’economia, che creavano occupazione ma impose la composizione dei conflitti di lavoro attraverso organismi d’arbitrato obbligatorio nei quali i lavoratori erano per la prima volta fatti concretamente uguali agli imprenditori. I sindacati socialisti furono rafforzati invece che sciolti.

Dopo sei-sette anni di sperimentazioni spesso improvvisate quindi disordinate, e di spesa pubblica resa eccessiva dalle spinte paternalistiche, qualche volta demagogiche, il paese fu raggiunto dalle ripercussioni (pur meno gravi che in paesi industrializzati quali Gran Bretagna e Germania) della Grande Depressione americana. Così le azioni positive mosse da Primo de Rivera e dai suoi giovani luogotenenti civili -José Calvo Sotelo, superministro economico, e Eduardo Aunòs ministro del Lavoro e progettista della riforma corporativa- si fermarono. Il consenso soverchiante del paese nei primi anni della modernizzazione filoproletaria scemò per la crisi congiunturale.

La classe lavoratrice guidata dallo storico Partito Socialista, che aveva accettato di allearsi al regime Primo de Rivera, manteneva l’appoggio al Dittatore che aveva parteggiato per i poveri. Ma l’opposizione dei ceti benestanti, degli imprenditori, degli intellettuali liberal-azionisti e degli studenti universitari si fece accanita. Lungi dall’asserragliarsi al potere sotto la protezione dei militari (che gli restavano fedeli) Primo de Rivera si ritirò volontariamente e subito. L’anno dopo la monarchia morì: de Rivera l’aveva costretta a volgersi verso il popolo, ma i tempi esigevano discontinuità.

La Repubblica che nacque in insolita armonia tra i partiti (ma la ‘allegria’ che sembrò levarsi era solo degli studenti e degli attivisti radical-libertari) cominciò a morire poche settimane dopo: mobilitazioni, lotte, scioperi politici, incendi di chiese e di conventi, i primi conati insurrezionali della sinistra e degli anarchici. Nel 1934 i minatori delle Asturie si rivoltarono contro la Repubblica, due anni prima del generale Mola e dei suoi sodali, uno dei quali- Francisco Franco- aveva represso coll’artiglieria l’insurrezione asturiana per conto del governo di Madrid. La Repubblica, inizialmente non rossa ma ‘azionista’ e anticlericale, crollerà per non aver dato la terra ai contadini e per avere offerto agli altri proletari quasi solo sventolio di bandiere, parole d’ordine, più insegnanti che erano anche propagandisti repubblicani, ma ben poca socialità concreta oltre quanta ne avesse avviato la Dittatura.

Lo Stato moderno fatto soprattutto di dirigismo, produttivismo e Welfare non risale al quinquennio repubblicano (1931-36) e alla mobilitazione di guerra guidata dai comunisti, bensì alla scelta filosocialista, alle provvidenze e opere pubbliche di Primo de Rivera: non solo strade e ferrovie, anche case popolari e incremento dei diritti dei proletari. Dopo la vittoria il franchismo, pur configurandosi vendicatore delle persecuzioni subite dal clero, dai latifondisti e dai banchieri, riprese gli indirizzi livellatori di Primo e di Aunòs, spogliando quegli indirizzi dei lineamenti fascistoidi del corporativismo. Le pensioni e la sanità pubblica, oggi pari a quelle italiane, cominciarono con Primo e proseguirono con Franco. Guadagnato l’appoggio degli Stati Uniti (e dunque passato il pericolo che veniva dalle plutodemocrazie occidentali) il regime di Franco portò avanti l’interclassismo di de Rivera e recepì gradualmente le linee di democrazia economica, amicbe del mercato, comuni a tutte le società occidentali. Il miracolo economico spagnolo cominciò pienamente alla fine degli anni Cinquanta.

L’interventismo economico franchista, derivato come sappiamo dal settennio della Dittatura, si era rafforzato durante la guerra civile. Nel 1937 sorge il Servizio nazionale dei cereali, tre anni dopo vengono nazionalizzate le ferrovie, nel 1941 la telefonia. Quello stesso anno sorge l’Iri spagnolo (Ini, Instituto nacional de industria). Dopo d’allora si allargano le partecipazioni pubbliche. La disoccupazione si riduce ai minimi storici.

Si aggiunga, come fattore decisivo, il crescere del potere sindacale inaugurato da Primo de Rivera, animoso e persino temerario regista della lotta alla disoccupazione, delle assicurazioni sociali cominciando dalle pensioni, dell’assistenza sanitaria, delle provvidenze alle famiglie. Il Dittatore istituì di fatto anche la rigidità del mercato del lavoro, non sempre benefica: la franchista Ley de Contrato de Trabajo del 1944 rese molto difficile, o se si vuole costoso, licenziare un lavoratore. L’assetto moderno della produzione e dei rapporti tra le classi risale a Primo e a Franco, non a Felipe Gonzales e a Rodriguez Zapatero.

Il desarrollo, l’accelerazione dello sviluppo, risale alla fase 1948-57. Alla fine di quel decennio le provvidenze di matrice social-autoritaria si accentuano al punto che, come lamentarono gli avversari di destra, todos aspiran a vivir a expensas de todos los demas (di tutti gli altri). E così, in qualche misura, avvenne.

Come ha scritto il noto economista Juan Velarde Fuentes, la linea generale a partire dal primo dopoguerra è stata dominata dagli interventi pubblici; da un nazionalismo economico che ‘ampliava il protezionismo’; dalle componenti corporative; e soprattutto dal “populismo social, obsesionado por el mantenimiento dell’empleo através de rigideces (rigidità) continuas del mercado de trabajo”.

In conclusione. La struttura economica e sociale della Spagna d’oggi, così simile a quella italiana, è il prodotto di forze aggregatesi a partire dagli anni Venti e dal franchismo, quest’ultimo operante già nel 1936 nelle province sottratte alla Repubblica. Solo nel 1959, già cominciati il miracolo e il benessere diffuso, un Piano di stabilizzazione aprì una fase di rettifiche liberiste, consonanti coll’integrazione nell’Europa. Primo de Rivera, forse, vi avrebbe riluttato.

AMC