Su una cosa Berlusconi ha sempre avuto ragione: l’odiosità dei processi mediatici. Non tanto per il suo caso, infangato da leggi ad personam e porcherie giuridiche di ogni sorta, quanto per i comuni cittadini coinvolti in casi di interesse pubblico.
Vige la comprensibile, ma non per questo meno odiosa, abitudine di dare un risalto enorme alle accuse, all’avviso di garanzia, ad eventuali condanne intermedie, e minimo alle successive assoluzioni, magari intercorse a distanza di mesi o anni. In questo modo la vita delle persone coinvolte viene rovinata, buttata in pasto alla folla, senza troppo interrogarsi sulle ripercussioni di un tale trattamento. Rovinata la famiglia, rovinati gli amici, rovinato il lavoro, la reputazione, la stabilità psicologica e via così.
La battaglia perché questo sputtanamento sulla pubblica piazza venga se non terminato, almeno ridotto, è l’unica battaglia del centrodestra che, da garantisti, non si può non sottoscrivere.
Eppure a 72 ore dal silenzio elettorale, a 27 secondi dalla fine del dibattito televisivo, Letizia Moratti ha scelto dare un calcio a quel poco di giusto che era rimasto nel patrimonio politico della sua fazione, ed ha accusato il suo sfidante, Giuliano Pisapia, di essere stato condannato per furto di un furgone utilizzato a fini di sequestro di persona e violenza.
L’accusa si è dimostrata falsa nel giro di pochi minuti. L’assoluzione, non per amnistia (come invece accadde a Berlusconi per la falsa testimonianza circa la sua appartenenza alla loggia P2) ma per non aver commesso il fatto, è stata prodotta e pubblicata immediatamente.
Ma invece di doverose scuse per il macroscopico errore, o quantomeno per la caduta di stile, il sindaco Letizia Moratti ha rincarato la dose, subito spalleggiata dal suo partito e dal presidente del Consiglio. “Non volevo dimostrare la sua colpevolezza ma la sua contiguità col terrorismo rosso”, è la teoria della signora Moratti.
Di male in peggio. Per una destra che si è spacciata come liberale e garantista (il primo aggettivo si era rivelato male appropriato già molti anni fa) imbracciare una sentenza di condanna di primo grado, contraddetta in appello, per colpire l’avversario è umiliante. Significa essere proprio ridotti ai minimi termini. Perché della sentenza non interessa il merito, ma lo “stigma sociale” che essa produce. Oltretutto Pisapia fu sì accusato di essere amico di alcuni terroristi rossi, ma nella sua assoluzione, oltre all’estraneità alle fattispecie delittuose, è stato dimostrato anche che non conosceva i terroristi in questione. L’unico appiglio che rimane a Moratti&Co. è la militanza nella sinistra extraparlamentare di Pisapia in gioventù.
Da questo punto di vista penso che però il centrodestra non possa dare lezioni. Sorvoliamo su Brandirali (ex maoista, poi forzitaliota) e casi analoghi, ma ci sono il sindaco di Roma, collega di partito della Moratti, e molti altri ministri e deputati Pdl che non fanno mistero del proprio passato nelle fila dell’estrema destra. Neofascisti insomma.
Senza cedere alla tentazione di dire chi fossero più cattivi, i rossi o i neri, possiamo comunque constatare che una ampia fetta della nostra classe politica negli anni di piombo frequentava ambienti estremisti. Oggi l’Italia è cambiata, non tanto in meglio quanto si sarebbe potuto sperare, ma di sicuro è mutato il contesto politico. Non ha senso rivangare militanze passate che sono state superate dalla Storia.
A meno che i neri, oggi istituzionali, non inizino a fare leggi razziali.
A meno che i rossi, oggi moderati, non abbiano nel programma l’esproprio dei mezzi di produzione.
Sempre che si voglia essere garantisti.
Sempre che non si utilizzi lo stigma sociale della pena come mezzuccio per raccattare consenso.
Tommaso Canetta