Strana, e abbastanza comica, dopo i fatti di fine marzo la costernazione degli editorialisti, dei canonici e sagrestani della Costituzione, delle anime belle che amano la Repubblica. ‘Mai così in basso’ ‘Imbarbarimento’ ‘Ormai il Parlamento è fuori controllo’ ‘La generazione dei De Gasperi e dei Pajetta non si dava al turpiloquio’ ‘Di ominicchi così non se ne può più’ ‘Gentaglia’ ‘Non ci meritavamo tanto scempio’ ‘Non si va più avanti’ ‘Il fiume sta per straripare’ ‘A un passo dal baratro’ e così via.
Ora, fin quando si tratta di confronti con la temperie del parlamento subalpino, a palazzo Carignano, e persino con le maniere e le marsine dei giorni di Di Rudinì, poco male. Ben più turpi sono dal 1945 i misfatti del regime. Ma quando leggiamo ‘A un passo dal baratro’ e ‘Dove finiremo?’ si impone la domanda: che si intende, precisamente, per baratro e per fine?. La morte delle istituzioni? E che baratro sarebbe: sorsero malate e sono da parecchio nel marasma (=stadio pre-agonico). Istituzioni che non meritano quasi niente, c’è dramma se muoiono? Verosimilmente, più che l’affezione a ciò che abbiamo avuto per 66 anni, è l’avvenire, il dopo-Terza repubblica, che terrorizza quanti si erano appena compiaciuti che il Quirinale papalregio e gli altri palazzi del potere si portassero così bene, a 150 anni. Allora, che baratro si teme? La libanizzazione? La libizzazione? Una guerra civile come diecimila altre nella storia? Il destino della repubblica di Weimar e di quella di Spagna?
E’ opinione diffusa che manchino le condizioni tradizionali per una svolta violenta. Peraltro: la repubblica di Weimar, che morì il 30 gennaio 1933 (Hitler cancelliere), aveva superato le sue fasi più drammatiche dieci anni prima, quando la Reichswehr schiacciò il tentativo di rivoluzione rossa in Sassonia e in Turingia; e quando il Rentenmark di Hjalmar Schacht spense di colpo la più orrenda delle inflazioni. Insomma Hitler salì al potere che l’economia della Germania, ripresasi prima della metà degli anni Venti, già cominciava a superare, disoccupazione a parte, le conseguenze della Grande Depressione. Notiamolo dunque: il passaggio al nazismo avvenne in un momento duro ma non il più tragico di Weimar.
Il caso spagnolo si addice al nostro, non poco. Si compose di due crisi molto gravi, nel 1923 e nel 1936, intervallate da un relativo benessere dell’economia. Nel 1923, quando il generale Miguel Primo de Rivera (padre di José Antonio, il fondatore della Falange) si fece dittatore senza colpo ferire, il sistema costituzionale agonizzava. Il parlamentarismo liberal-conservatore, avviato da Canovas del Castillo con la prima restaurazione della dinastia borbonica, si era dimostrato in quarantasette anni un assetto oligarchico tra i meno efficienti: analogo al nostro, pluto-democratico, progressista a chiacchiere, truffaldino come pochi, nel quale a centinaia con cravatta rossa percepiscono un milione all’anno.
I notabili liberali che dal 1876 si erano alternati al governo a Madrid avevano soprattutto gestito l’immobilismo: rubando molto meno che la partitocrazia italiana nata nel 1945, però indifferente alla miseria dei ceti proletari. In più i politici di Alfonso XIII non erano stati capaci di liquidare gli avanzi di un colonialismo condannato senza speranza dalla disfatta del 1898 nella guerra con gli Stati Uniti. Si ripete che il Re perdette il trono per i postumi di un disastro militare nel Marocco. In realtà fu la questione sociale ad abbattere la monarchia liberale dei benestanti.
Da anni i conflitti di lavoro avevano preso la piega della rivoluzione. La Spagna era sola a conoscere un anarchismo militante, votato all’insurrezione e al terrorismo. Nel quinquennio che precedette il colpo di stato del 1923 erano avvenuti quasi 1200 attentati, di cui 843 nell’area di Barcellona. Nel 1923 uno sciopero generale dei trasporti aveva fatto 22 morti. L’anno prima si erano contati 429 scioperi politici. All’inevitabile ribellismo proletario rispondeva la violenza controterroristica dei pistoleros padronali..
Dopo la catastrofe del 1898 il pensatore Joaquin Costa, un Mazzini/Cattaneo iberico, iniziatore del movimento intellettuale ‘rigenerazionista’, aveva predicato che la Spagna non si sarebbe salvata se un ‘chirurgo di ferro’ non avesse amputato la cancrena nazionale. I primi due decenni del Novecento, anche col moltiplicarsi in Europa dei movimenti antiparlamentari e autoritari, dimostrarono che Costa aveva ragione, Nel 1923 le circostanze spagnole erano divenute così intollerabili che Miguel Primo de Rivera, un generale di affiliazione liberale come tanti altri protagonisti ‘castrensi’ dell’Ottocento spagnolo e portoghese, poté compiere un colpo di stato fulmineo, facile e del tutto incruento. Ad esso andò il consenso pronto del paese, a parte l’élite intellettuale e una parte degli studenti. La Spagna approvò riconoscente. Nacque un regime militare denominato Dictadura. Finì non meno di sette anni dopo; durerà meno la Repubblica di Azana e della Pasionaria, esaltata dal sinistrismo internazionale.
La forte popolarità di Primo de Rivera andò scemando quando in Spagna arrivarono le ripercussioni (pur meno gravi che in altri paesi) della Depressione del ’29, e quando la finanza statale fu aggredita dai debiti dei grandi lavori pubblici e dell’avvio del Welfare State, entrambi ostinatamente voluti da Primo. Marchese e Grande di Spagna, il generale promosse nel concreto il riscatto della classe lavoratrice. Collaborò strettamente col forte partito socialista di Largo Caballero (capo del governo antifranchista, prima di Negrin), anzi provò a trasformarlo in partito unico di regime. Primo de Rivera fu odiato dalle classi alte, che risultarono, insieme ai notabili liberali e agli scrittori, la sua opposizione. Non fu abbattuto: lasciò istantaneamente il potere e la Spagna quando i capi delle forze armate declinarono di dargli una specie di voto di fiducia. Il suo regime non era stato né sanguinario né propriamente poliziesco:
Gli italiani di oggi disprezzano la loro classe politica. La cleptocrazia che essa gestisce li disgusta. Le Istituzioni, anch’esse possedute dai partiti -non importa se governativi o d’opposizione- hanno sempre meno titolo ad essere difese. Dopo sessantasei anni di malaffare, si può dubitare che ove sorgesse un Primo de Rivera, con la sua propensione per il popolo, la sua personale onestà di gran signore andaluso, persino la sua demagogica bonomia, egli prenderebbe il potere in Italia? Che quasi d’incanto sparirebbero gli oppositori fermissimi e ‘viola’? Che almeno in una fase iniziale egli avrebbe il sostegno del paese?
Questo, sotto sotto, sgomenta gli opinion makers, i moschettieri delle Istituzioni (il 25 luglio ’43 quelli del Duce non mossero un dito; lo stesso farebbero i moschettieri di De Benedetti). Le beghine della Costituzione piangerebbero in silenzio, però senza esagerare.
Impaurisce il regime che il suo sopravvivere sia appeso a non più di tre fili. 1). Che non nasca un uomo d’azione, persino mancante della gloria di Charles De Gaulle (quando agì, Primo de Rivera non aveva la gloria di De Gaulle). 2). Che l’economia non si sfilacci troppo. 3). Che la pace sociale e la rassegnazione non vengano cancellate di colpo da eventi traumatici. Il più duro di essi potrebbe essere, da un certo punto in poi, lo ‘tsunami umano’ dall’Africa, e non solo.
Forse i traumi gravi non sono imminenti, sempre che l’economia non deperisca troppo. La costernazione degli editorialisti e delle anime belle passerà. Il turpiloquio (peccato veniale) e il furto eufemizzato come costo della politica (peccato capitale) continueranno. Però il Mubarak collettivo che ci possiede faccia qualche gesto dimostrativo. Altrimenti il banchetto dei Proci finirà come quella volta, in una delle isole ionie.
A.M.C