NONOSTANTE IL FRASTUONO

Tamquam nihil habentes, et omnia possidentes.

Cor. 2, 10

C’è un’onda che inghiotte un palazzo di tre piani in cemento. Il lembo più estremo dell’acqua è contornato di nero, come se il mare avesse passato l’eyeliner prima di uscire.

«Come mi sta questo mascara? Oggi il piegaciglia è uno strumento indispensabile».

C’è un profumo al mughetto e vaniglia in una confezione trasparente a forma di geisha. Una donna bionda in giarrettiera, al piano di sopra, estrae una katana e guarda l’orizzonte alle mie spalle.

L’onda, ripresa dall’elicottero è uguale ad una mostruosa pisciata nel parco. Serre e cascine come aghi di pino, uomini come formiche, l’acqua giallastra sporca di fango: le città divorate dallo tsunami non sono che merde di piccione su cui si posa una minzione distratta.

Pregate per il Giappone, Dio è arrabbiato. Neppure le arche si salvano, oggi. Ho visto navi che avrebbero potuto trasportare due volte lo zoo di Berlino piegarsi come cartabibbia alle brezze di aprile. Un uomo trascina un sacco di plastica azzurra. Dice nei sottotitoli: «È mia moglie».

Come sono entrato in questo palazzo di vetro, non ricordo. Una ragazza magrissima, il volto sottile, ma gonfio, ed ecchimosi praticamente invisibili sotto la pelle dimostrano che vomita. Ha i capelli spessi e fragili, le unghie irregolari smacchiate di fretta con qualche acetone che puzza di ammoniaca: «Gli ho detto che non è azzurro, ma puffo, lo smalto che preferisco. Chissà cosa avrà pensato?».

Chi è, non mi ricordo. La stanza è un labirinto di specchi. È una maratona di espositori laccati, boccette di profumo impilate maniacalmente come birilli. Sogno una palla da bowling da sedici libbre, nero lucido come la parte di notte che lambisce l’aura di latte della luna, come il mascara che la ragazza bulimica sta appiccicando alle ciglia, la giarrettiera dell’eroina spadata, lo spillo fra i capelli della geisha di vetro. Nera come il bordo dell’onda che inghiotte la gente con le mani in preghiera di Minamisanriku: Wikipedia aggiorna lo stato da «è una città costiera affascinante, 200 km Nord-Est da Tokyo», in «era».

C’è una foto che scorre sullo schermo del centro commerciale, dove mi trovo. Vapore bianco che in lontananza disegna una torre di fumo accanto a una torre d’acciaio. Dicono sia una centrale nucleare. Che il nocciolo fonda, laggiù. Che il mare – che non si vede – misuri sette milioni di volte le radiazioni che avrebbe in condizioni normali. Che sono 50 i samurai fantasmi che lottano contro ondate fantasmi d’isotopi e cesio 131, polveri invisibili che uccidono oltre i 10 siervet, alimentando gli spettri di una contaminazione alimentare. Dicono.

«Esistono infinite combinazioni di blush. Secondo te, perché adoriamo truccarci?».

Voglio difendere tutto questo. Il centro commerciale con i diamanti della Liberia in vetrine antiproiettile. I lampadari ad incandescenza accesi dall’energia delle centrali atomiche in Francia. Sul sito del Newsweek alcuni ragazzi africani cantano: «God forgive us for killing each other». Una nigeriana ha aperto una scuola per apprendiste modelle. Difende il diritto di lanciare le sue ragazze sulle passerelle di tutto il mondo. Di tutto il mondo occidentale.

Difenderò con la vita il confine che separa la difesa dei suoi diritti dai miei. Difenderò le mie difese naturali, come dice il pop up di una pubblicità di yogurt probiotici. La chiudo mentre ruoto l’iphone per allargare in orizzontale l’ultima slide show acquistata dal Corriere.it attraverso un’agenzia fotografica che paga un free lance che ha assoldato un locale per fargli qualche scatto, rischiando la pelle. L’application di un dizionario on line mi dice che i probiotici sono «organismi vivi che, somministrati in quantità adeguata, apportano un beneficio salutistico all’ospite». Ospite è sia colui che ospita sia chi viene ospitato, dice il dizionario. Come se tutti su questa tessa fossimo sempre e comunque invitati. Mi immagino un titolo del Manifesto a dodici colonne: Immigrati Probiotici. Difenderò le mie difese, statene certi.

Le foto che scorrono sul cellulare ritraggono i corpi spiaggiati di uomini dalla pelle scura. Potrebbero essere le sacche di sangue sottocutaneo che negli annegati colorano di vinaccia la pelle del viso, le spalle, il torace anteriore. No. Non lo sono. Esiste un intero apparato d’informazione costruito per dirmi che non sono bianchi, quei morti affogati. Io gli credo. Devo sempre e comunque credere in qualcosa per vivere.

Grazie ad un sistema a rilevatori di movimento, se scuoto il polso della mano che impugna il cellulare, sullo schermo compare un’immagine nuova. Ci sarà un momento in cui tutte le centinaia di persone di questo centro commerciale scuoteranno all’unisono i polsi? Muoveranno di scatto le braccia per sfogliare una pagina virtuali?

«Ho prenotato per venerdì al teatro dell’Elfo. Il nuovo spettacolo di Ricci\Forte è un’allucinata metafora della condizione contemporanea. Un tipo vestito da paperino divora chili di gelato al gusto di noci di Macadamia. Poi uccide un sacco di cupcakes che gli stanno tutti attorno!».

I neon delle vetrine fanno salire una nausea chimica dallo stomaco alla testa. In bocca il sapore di thè verde alla menta. Così, mentre cerco di capire se vomitare o assaporare, resto immobile ad osservare una tovaglia a scacchi adagiata sul corpo di un uomo affogato per varcare un confine tracciato dalle nostre sicurezze, dal tentativo di contornare le nostre felicità. In corrispondenza degli angoli del corpo – il mento, un gomito, l’attaccatura della rotula al femore, la nocca del dito medio della mano destra – la tovaglia si increspa verso l’alto, come se volesse uscire dal fotogramma ghiacciato della morte. Una scrittura d’ossa irricevibile per qualsiasi traduttore perché scritta nella lingua che prima della dispersione di Babele rendeva proprio i traduttori obsoleti. Forse, mentre cerco di unire le increspature della tovaglia per trovare l’ultima parola di quel corpo, penso che non sia mai esistita una lingua prima delle lingue, un atto linguistico onnisciente e a tutti comprensibile. Prima della parola era il silenzio, l’azione, il taglio degli occhi, la ruga fra il naso e le palpebre, la lacrima. Questa morte velata parla di quello scandaloso silenzio che era evidenza immediata, verità assoluta iniettata negli interstizi di un vuoto inossidabile alla parola. I confini sono venuti con le definizioni. Le nazioni hanno trovato il loro naturale fondamento nelle identificazioni. Pronuncio sottovoce «Italia», «Europa», casa «mia».

«Non trovi che il burlesque possa guadagnarsi lo stato di ottava arte? È una performance sofisticata e per niente erotica. Perché ci spogliamo per metterci a nudo?».

E guardo la pelle «nera» che scivola fuori dalla manica di un braccio non celato dalla tovaglia. Queste sillabe, questi nomi tracciati per dividere i popoli. Quanti sono i sacrificati ai confini, i guardiani, i secondini? E quanti quelli che moriranno a varcarli, ad abbatterli, a vanificarli, per poi forse ricostruirli. Questi confini?

Grazie ad una scala mobile salgo verso un tunnel illuminato da neon fucsia che porta in un negozio a forma di caverna. Ci sono stalattiti di cemento e vestiti inamidati all’interno di spelonche nella roccia finta. Difenderò tutto questo fino alla morte. L’importante, penso, è che qualcuno muoia.

Un uomo viene giustiziato. Gli hanno sparato alle gambe perché non ha voluto giurare fedeltà ad un regime. Posso aprire sul touch screen il video in cui si sentono le voci dei soldati che urlano e ridono. Mentre tentavo di prendere sonno, la sera prima, qualcuno in strada mischiava urla sgraziate a una specie di ringhio. Si sentivano schioccare i denti. Nella veglia schiacciata da un sonno stanco, immaginavo che fossero uomini bestia ad ululare in quel modo. Forme di vita composte da un’unica gigantesca gola e una cassa di risonanza al posto del corpo. Scatole organiche con corde vocali come violini, baffi come stringhe della chitarra.

I soldati gli ordinano fedeltà mentre l’uomo si copre il viso con l’avambraccio. Se non vedo non può succedere. Se non vedo non può accadere.

Si chiama Geraid Haussì, dice la voce fuoricampo del cronista. Dice altre cose. I numeri dei morti a Misurata. I bambini feriti negli scontri fra lealisti e ribelli. Ma non racconta di chi raccoglierà le spoglie di Geraid. Lo lasceranno sul marciapiede macchiato del sangue delle sue arterie? Torneranno a riprendersi il corpo, lo veleranno come i morti affogati sulla spiaggia? Sposteranno il rigore del suo braccio impietrito nel gesto di proteggere l’ultima immagine raccolta dalle sue retine, prima della fine. Del proiettile che gli strappa la vita?

Un link sotto al video apre la pagina dedicata alla Costa d’Avorio: c’è un uomo sdraiato sopra ad un cemento sconnesso. Indossa soltanto i suoi boxer granata. La testa appoggia sul braccio sinistro gettato a terra come se fosse staccato dal resto del corpo: un cuscino di carne. Le gambe accavallate non sono distese. Sembrano slogate, parti snodabili di un manichino da posa. Troneggia un pick up sullo sfondo. Un uomo veste una casacca macchiata di terra, color kaki. La fibia allentata di un kalashnikov gli getta l’arma direttamente sulle ginocchia, come fosse il chitarrista di un gruppo punk. Altri commilitoni siedono sui bordi del fuoristrada. Hanno le braccia lunghe e filamentose, i volti cianotici. Sono giocatori NBA febbricitanti. Nessuno guarda l’uomo coi boxer granata. La sua nudità è imbarazzante, crudele. Sento l’odore dell’asfalto che sta accumulando sotto le unghie. La didascalia dice «ferito».

O forse è il mughetto che prima la ragazza magrissima mi ha spruzzato sui polsi? «Stai benissimo», dice infilandomi un cappotto di renna attraverso spalle senza volontà. Sto alla grande. Difenderò fino alla morte il confine che permette alla mia vita di stare così. Non boccheggerò sul cemento. Non gonfierò fino a scoppiare di radiazioni. Non affogherò, non affogherai ragazza bulimica. Stiamo alla grande. «Basta, spegni il cellulare. Smetti di guardare  gli schermi del magazzino. Ecco. Ho trovato un telefono di peluche. Puoi abbinarci una bilancia con del parquet rosa shocking sulla pedana. Lo sapevi che in Cina alcune donne si fanno pagare per schiacciare la frutta con i tacchi? Si chiama trampling». Cerco il ristorante più vicino attraverso un programma di e-mapping.

«No, non ho fame. Mangiare mi mette ansia. Ieri ho combattuto l’impulso di gettarmi su di un vassoio di chiacchiere mordendo noodles crudi, osservando unicorni e schiacciando le unghie contro le palme, fino a che non le ho sentite sanguinare».

Stiamo alla grande. Ogni attimo delle nostre esistenze è unico. Non affogheremo. Faremo un capolavoro di questo casino. D’altra parte non c’è il tasto reset nel grande libro dell’Occidente. Non puoi dire alla vita: «Dai, riproviamoci».

«Per questo la difenderemo fino alla morte», dico squadrandole gli occhi.

«Cosa? Di chi?»

Si chiama Geraid Haussì, così si chiamava. Ma basta coprirsi gli occhi, mentre muore sullo schermo del tuo cellulare. C’è un intero apparato d’informazione per questo.

Gabriele Pieroni

1 commento

  1. La ragazza magrissima dispensa delle perle di saggezza di cui non posso fare a meno di prenderne nota :)

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