DE MAURO: Italianità linguistica in che senso

Due perizie sull’Italia

Scriveva diciassette anni fa Tullio De Mauro, l’autore de L’Italia delle Italie (Editori Riuniti, 1992) e del capitolo Lingua e dialetti di Stato dell’Italia (il Saggiatore 1994), che nello Stivale sono parlate 13 lingue minori e una dozzina di dialetti. Che un settimo degli italiani possiede solo un dialetto. Che la cultura ufficiale ha occultato o ignorato ‘la straordinaria varietà del plurilinguismo nazionale’. Che fino al secondo dopoguerra la lingua italiana è stata essenzialmente confinata all’uso scritto, come una lingua morta. Che nello Stivale le differenziazioni linguistiche sono più numerose e più marcate che in altre aree europee e mediterranee. Delle 28 lingue minoritarie censite nel 1992 all’interno della CEE, 13 vivono in Italia: tra esse il francoprovenzale, l’occitanico, il serbocroato, l’albanese, il neogreco, il catalano e in più il tedesco di varia base dialettale. “ E’ stato notato che la distanza linguistica tra alcuni dialetti piemontesi o lucani e l’Italiano standard è maggiore della distanza di francese e rumeno rispetto all’italiano”.

“Non c’è paese del Nord del Mondo in cui, a parità di area e popolazione, vi sia un analogo secolare insediamento di dialetti diversi e di lingue minori altre (…) Che un così esteso plurilinguismo e un imponente, storico ‘co-linguismo’ siano stati occultati, sottaciuti, è un ramo recessivo della tradizione letteraria.  A onta dell’italianità concepita come omogeneità, se nel confronto europeo e mondiale vi è qualcosa di specificamente italiano è proprio la tenace, millenaria differenziazione linguistica e culturale”.

Altra constatazione di Tullio De Mauro. “Rispetto ad altre aree europee lo spazio italiano è solcato da confini naturali interni, appoggio formidabile alle partizioni etnico-linguistiche. Dall’inizio del IV secolo a.C.. l’intera storia delle popolazioni italiane si è svolta per vie tali che hanno trasmesso il gene della diversificazione linguistica (…) Certo, sia pure a grandi intervalli, vi sono stati eventi unificanti, ma essi si sono svolti in modo da salvaguardare o quanto meno da non cancellare le differenziazioni anteriori”. De Mauro giudica ‘merito insigne’ di Roma il non avere conosciuto nazionalismi linguistici. La latinizzazione delle genti della penisola, ‘compresi molti centri costieri greci’, avvenne all’insegna del lasciar fare: ciascuna popolazione si scelse spinte, tempi e modi”.

 “L’elezione del fiorentino a lingua comune si ebbe tra tardo ‘400 e ‘500 per la decisione di diverse corti e dei letterati che vi gravitavano: la gente colta usava il latino (come nel resto d’Europa) e accettò l’idea che, tra i grandi dialetti, la lingua comune fosse la parlata più vicina al latino, ornata dal prestigio dei tre grandi trecentisti fiorentini. Ma non ci fu allora e poi per quattro secoli ancora, una aula unitaria, una corte, una classe dirigente, una capitale che  imponessero alle popolazioni di convergere verso la stessa scelta (…) Di recente qualcuno, forse preso da contingenti intenti politici, ha affermato che l’italianità linguistica non è mai stata in discussione. Ma è un falso storico (e, si potrebbe opinare, anche una sciocchezza: si difende l’unità della patria occultando le fattezze del suo volto?). Il 65% di italiani senza alcun titolo di scuola (censimento del 1951) non mettevano in discussione l’italianità linguistica: ovviamente perché, tolti toscani e romani, nemmeno sapevano di che si trattasse”.

“L’uso stesso dell’italiano è restato essenzialmente un uso scritto. Pronunzia, vocabolario, periodare, stile serbano tracce di questa predominante vita da lingua morta, essendo invece le lingue ‘vive e vere’ i singoli diversi dialetti. A partire dai tardi anni Cinquanta le grandi migrazioni, la televisione, la crescita della scolarità di base almeno nelle fasce più giovani, hanno fatto del possesso della lingua comune un bene alla portata di tutti. Ma solo il 38% degli italiani parla sempre e solo l’italiano, anche se è abbastanza diffusa la capacità di convergere verso standard unitari nello scritto o nel parlato”.

A.M.C