Due perizie sull’Italia
Ha fatto bene Agorà, sezione culturale di ‘Avvenire’, a pubblicare con onore l’intervento di Franco Cardini al convegno romano “Questo diletto almo paese”, cui ha partecipato un manipolo di studiosi spesso -non sempre- pari a Cardini per dottrina e sapore d’espressione. Titolo dell’articolo: ‘Un’altra unità era possibile’. Cardini non è solo a giudicare che un secolo e mezzo fa la scelta federale sarebbe stata più consona al nostro passato “solo raramente interpretato come unitario”; e a sottolineare che dal nostro retaggio medievale risalta forte la pluralità degli ambiti e dei poli regionali.
Concetti abbastanza noti e condivisi. Merito proprio di questo esercizio del Nostro è piuttosto di lumeggiare, tra altri aspetti non presenti nelle recenti riflessioni, “l’assenza di un simbolo araldico comune, paragonabile al giglio di Francia”. Manca, in effetti. C’è una fonte di tipo araldico, spiega lo storico fiorentino, che conferma la difficoltà di cogliere gli elementi unificanti del nostro passato. L’Ordine ospedaliero nato ai primi del XII secolo attorno alla chiesa di San Giovanni a Gerusalemme, poi nel Cinquecento divenuto prima di Rodi poi di Malta, si organizza in otto circoscrizioni nazionali dette ‘Lingue’, le quali non ricalcano gli stati moderni bensì i sistemi linguistico-nazionali: Castiglia, Alemagna, Inghilterra, Aragona, Italia, Francia, Alvernia, Provenza. Sette delle Lingue hanno “un’identità abbastanza precisa, espressa da un non meno esplicito segno araldico. Nel caso dell’Italia gli araldisti giovanniti, non essendo riusciti a trovare una figura unificatrice, hanno fatto ricorso a una parola, ‘Italia’, ricamata in lettere gotiche dorate su un campo nero. Un colore questo che forse rimanda alle origini benedettine (o agostiniane) dell’Ordine, ma che è anche un non-colore, un’assenza, l’incapacità di assegnare alla penisola anche un valore simbolico-cromatico che tutta la rappresenti”.
Cardini considera “la semiafasia simbologica degli araldisti dell’Ordine di Malta come un altro ribadimento dell’assenza di un centro unificatore della nazione” e perciò della realtà ‘policentrica e municipalistica’ che ha segnato la nostra storia. Dà ragione allo storico fiorentino il fatto che non abbiamo un simbolo comune, di immediata percezione. Lo stellone d’Italia è stato sì accolto nello stemma metalmeccanico e bellaciao dell’attuale repubblica, ma resta un richiamo oleografico che non va più lontano di un Ottocento sabaudo, cioè parziale. J’attends mon astre era l’antica divisa sabauda usata da Carlo Alberto. Nella sapiente arguzia di Alfredo Panzini, lo stellone “era la meravigliosa fortuna che assistette l’Italia nel suo Risorgimento”. E’, diciamo noi, un simbolo simpatico però troppo giovane, sconosciuto nei primi trenta secoli della nostra storia.
Per la bandiera della nostra Marina si trovò la gradevole soluzione di accostare i simboli delle quattro nostre repubbliche marinare. Ma i loghi di Genova Venezia Pisa Amalfi non fanno un logo nazionale. E d’altronde: chi di noi saprebbe menzionare di primo acchito i simboli di altre nazioni, a parte forse un’aquila di varia apertura alare per il contesto germanico (e russo, polacco, albanese, etc) e un leone per quello britannico (e belga, ceco, finlandese, etc)? Insomma l’araldica non docet, o almeno non è tassativa.
Forse indebolisce un po’ l’argomentazione ‘giovannita’ utilizzata da Cardini la circostanza che se alcune Lingue dell’Ordine gerosolomitano raccolgono aree plurali (quella d’Alemagna raduna anche le pertinenze balto-finniche) la penisola iberica è distinta in due Lingue (una raduna Castiglia e Portogallo, l’altra Navarra Galizia Paese Basco Catalogna e Aragona), la Francia addirittura in tre (Francia, Alvernia e Provenza). Dunque due nazioni che usiamo considerare pressocchè monolitiche risultano bipartite (Spagna) o tripartite (Francia). Tuttavia è un fatto che non è solo l’Ordine di Malta a non sapere assegnare all’Italia un simbolo particolare.
La conclusione di Cardini: “Passata la tempesta napoleonica la Penisola si presentava non disadatta al conseguimento di un’unità federale parallela a quella che, nei medesimi decenni, andava imponendosi in Germania (…) La convergente dinamica dell’espansionismo piemontese, dell’attivismo ‘democratico’ e neogiacobino e delle preoccupazioni conservatrici dei ceti dirigenti e abbienti imposero invece la soluzione unitaria”.
A.M.C