Si fa un gran parlare della “epocale” riforma della giustizia che il governo Berlusconi vorrebbe varare. I punti salienti sono noti: separazione delle carriere, sdoppiamento del Csm, obbligatorietà dell’azione penale “secondo criteri di legge”, responsabilità dei giudici, inappellabilità delle sentenze di assoluzione e polizia giudiziaria non più direttamente sotto il controllo del Pm, ma che opera secondo quanto fissato per legge.
Sorvoliamo sulla concreta possibilità che una simile riforma costituzionale passi indenne dalle quattro letture di Camera e Senato e, soprattutto, dal seguente referendum confermativo. Sorvoliamo anche sul fatto che Berlusconi è la persona meno indicata per portare avanti una pur necessaria riforma del sistema giudiziario, essendo al contempo imputato e legislatore.
Alcuni principi cardine della riforma sono condivisibili. La divisione delle carriere, netta e definitiva, è garanzia per il cittadino dell’imparzialità del giudice. La responsabilità dei giudici, se limitata a casi gravi, come accade per i medici che operino con tecniche avanzate e sperimentali, potrebbe essere un buon deterrente a certi malfunzionamenti dei tribunali. L’obbligatorietà dell’azione penale, di fatto, già non esiste. Troppo intasate le procure per poter dare uguale priorità a tutti i reati, così ognuna finisce con lo stabilire una propria gerarchia creando un’inaccettabile difformità sul territorio.
Tuttavia questi principi vengono stuprati e gettati nel fango in nome di un intento, affatto malcelato, di controllo della politica sulla giustizia. I due Csm, di giudici e pm, verrebbero fortemente sottoposti al potere legislativo, prevedendo che la metà dei componenti sia nominata dal Parlamento, e che il Vicepresidente venga eletto in tale metà. I “criteri di legge” che dovrebbero regolare l’azione penale sarebbero dettati dal Parlamento. La “Corte di disciplina”, che dovrebbe gestire le sanzioni in caso di responsabilità dei giudici, è anch’essa eletta per metà dal Parlamento, e il suo Presidente deve essere necessariamente eletto tra quelli nominati dal Parlamento. La polizia giudiziaria, nel corso delle indagini, sarebbe maggiormente responsabile nei confronti di quanto deciso dal Parlamento con legge, che non nei confronti di quanto deciso nel concreto dal Pm. Si ripropone poi l’assurdità del già cassato “Lodo Pecorella” per cui le sentenze di assoluzione in primo grado sarebbero inappellabili dal Pm. Indubbiamente un segnale indicativo per una riforma che ha la pretesa portare in condizioni di parità accusa e difesa.
Dunque, la riforma così com’è non può suscitare alcuna simpatia, anche nei settori non berlusconiani più favorevoli a discutere di riordino del potere giudiziario.
Ma per non essere accusati di essere capaci solo di cassare senza mai saper proporre, avanziamo alcune idee che potrebbero, forse, rendere meno indigesta la riforma, pur salvandone i principi ispiratori.
La carriere vengano separate e si sdoppino i Csm. Tuttavia la quota di nomina parlamentare venga mantenuta nella frazione di un terzo, e non della metà. Il Vicepresidente sia pure eletto nel terzo di nomina parlamentare, ma non abbia alcun potere di veto sulle decisioni del plenum.
Uguale proporzione (due terzi nominati dai giudici, un terzo dal Parlamento) sia applicata alla istituenda Corte di disciplina.
La responsabilità dei giudici venga limitata ai soli casi estremi. Non vorremmo certo giudici terrorizzati dal dover decidere circa qualsiasi causa complessa.
Si spazzi poi via dal tavolo l’assurda inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Come il giudice può sbagliare nel condannare un innocente, allo stesso modo può sbagliare assolvendo un colpevole. Nella giustizia penale sarebbe gravissima una tale asimmetria.
Si diano delle priorità nell’esercizio dell’azione penale uniformi per tutto il territorio, ma non sia il Parlamento a deciderlo tramite legge, ma i due Csm, in seduta comune e con maggioranza qualificata, tramite un atto di indirizzo. Non vorremmo nemmeno dei politici che “casualmente” chiedano di perseguire meno i reati che più le interessano e maggiormente i reati che fanno scandalo nell’opinione pubblica.
Infine, si lasci la polizia giudiziaria sotto il controllo del Pubblico Ministero. Sarebbe grave se il necessario sodalizio tra questi due organi nel corso della indagini venisse incrinato da indicazioni di provenienza politica. La sottoposizione alla legge c’è già ed è sufficiente, questa novità avrebbe solo il senso di ridurre ulteriormente l’autonomia del Pm.
A corollario di queste proposte ci permettiamo di svolgere una considerazione conclusiva: nessuna di queste pur giuste istanze servirà a rimediare il peggiore dei mali della giustizia italiana, cioè l’eccessiva durata dei processi (specialmente di quelli civili). Per risolvere questa questione, che crea immensi danni al mondo economico ma non solo (si pensi alle sentenze di divorzio o affidamento dei minori), servono innanzitutto più risorse: più giudici, più pm, più cancellieri, più aule etc. Serve poi una seria disciplina del ricorso a metodi conciliatori extragiudiziali. Servirebbe poi l’abolizione di un grado di giudizio nella giustizia civile. Che decida in primo grado un giudice di merito in composizione collegiale, e un giudice di legittimità in ultima istanza.
Ovviamente ognuna di queste proposte suscita la resistenza di questa o quella lobby, e l’argomento è forse troppo tecnico perché l’opinione pubblica si interessi ed eserciti la necessaria pressione affinché si proceda nella giusta direzione. Ma del resto sul fondo del vaso di Pandora rimase la speranza.
Tommaso Canetta