L’Egitto e la Tunisia configurano e rappresentano forse il futuro dell’Italia?
Non è escluso, se si tiene conto che il sommovimento (in inglese shaking off, in arabo intifada) che scuote oggi questi paesi trova la sua base soprattutto in un dato, essenziale per il genere umano: la mancanza di lavoro e quindi di reddito.
In Italia la situazione non è arrivata al punto di rottura per tre importanti ragioni: livelli di reddito, sistema pensionistico, dinamiche demografiche.
Non soltanto il tenore di vita medio è qui molto più elevato, ma la previdenza sociale garantisce oggi agli anziani pensioni sufficienti ad aiutare economicamente figli e nipoti. Per questo in Italia non ci rendiamo ancora conto di quanto grave sia la situazione di pericolo che sovrasta il nostro Paese. Se i figli tra i 40 e i 50 anni perdono il lavoro, o ne hanno uno precario e sottopagato, i genitori possono ancora aiutarli, e su questo aiuto possono contare anche i nipoti tra i 20 e i 30 anni. Ma fino a quando? Ancora non per molto, dato che abbiamo dato vita alla previdenza sociale quando eravamo poveri e, ora che siamo ricchi (forse ancora per poco), la stiamo smantellando dicendoci che costa troppo.
E veniamo alla terza ragione, quella demografica. Nel 1963 la popolazione italiana (52,2 milioni) era quasi pari a quella delle popolazioni di Egitto (27,3 milioni) e Turchia (27,8 milioni) messe insieme. La situazione in questi decenni è radicalmente mutata: le popolazioni di Egitto (78) e Turchia (73) messe insieme contano oggi per oltre due volte e mezza la popolazione dell’Italia (60). Si tratta di una massa di persone nel fiore degli anni alla quale non è bastata l’emigrazione per alleviare il carico della disoccupazione in patria. La previdenza sociale inesistente o scarsa e i redditi medi modesti non permettono agli anziani, che sono comunque una
minoranza, di aiutare i giovani. Questi si trovano senza lavoro e non hanno modo di gettare le basi per una vita dignitosa delle loro famiglie. Eppure hanno spesso studiato, con grandi sacrifici loro e delle famiglie di origine, e questo accresce il rancore verso i pochi privilegiati.
Hanno pazientato fin troppo per sfogare la loro rabbia nei confronti di chi li ha governati, e mal governati per giunta. Ma la democrazia, parola che sono costretto mio malgrado ad usare (non ostante abbia ormai perso ogni significato proprio poiché ogni forma di governo si arroga il diritto di dirsi democratica), non basta ad affrontare il vero problema che sta alla base del desiderio in atto di scrollarsi via, di sbarazzarsi (shaking off, intifada) di ciò che non si sopporta più. Ma purtroppo non basta cambiare il governo, dar vita a un altro meno oppressivo per risolvere il problema della mancanza di lavoro.
Nel 1944 W. H. Beveridge definiva l’obiettivo del pieno impiego come “having always more vacant jobs than unemployed men, not slightly fewer jobs” e da qualche decennio i governi hanno di fronte il ben più serio
problema della disoccupazione strutturale di massa. Tuttavia nessun governo ha avanzato serie proposte per farvi fronte, men che meno per risolverlo.
Nel frattempo, avviata silenziosamente ma apertamente da alcuni decenni, la diffusione della microelettronica nella produzione di beni e servizi ha cambiato radicalmente il quadro sociale.
Oggi la ripresa dell’occupazione non può avvenire come in passato grazie ad investimenti adeguati; e se nuovi investimenti vi saranno l’occupazione non potrà che soffrirne, e non invece tornare a crescere come dicono di sperare i nostri politici e come vorremmo credere noi cittadini.
Si incoraggiano i giovani a studiare nelle istituzioni scolastiche fino ai gradi più elevati e molti di noi (quasi tutti) pensano che occorrerà maggiore istruzione per trovare più facilmente lavoro, per essere più
produttivi e quindi meglio remunerati come lavoratori. Il risultato di queste credenze e di questa spinta a privilegiare l’istruzione formale è non soltanto la scomparsa dei mestieri artigiani (una strada segnata
da un lungo e faticoso apprendistato di cui i giovani percepiscono la durezza e che perciò rifuggono) ma anche la formazione di schiere di giovani frustrati nelle loro illusioni di promozione sociale.
La scolarizzazione di base di massa – quella che ha portato la quasi generalità degli abitanti dell’Europa a saper leggere, scrivere e far di conto – è divenuta oggi l’istruzione universitaria di massa. Ma questo vasto e generalizzato consumo di istruzione fino ai livelli più alti non ha portato i benefici sperati. La trasmissione di ogni tipo di conoscenza, fatta in modo che chi la riceve sia poi in grado di applicarla nella sua vita di lavoro, avviene sempre attraverso un apprendistato che può essere più o meno severo. La società di oggi sembra chiedere di meno anche al medico, all’ingegnere, all’architetto, al tecnico di qualsiasi settore. Tutte queste figure possono contare, oggi molto più di prima dell’avvento della microelettronica, su prassi sempre più consolidate che non richiedono scelte individuali, e sull’aiuto di macchine che sembrano in grado di fare tutto da sole. Sembra essere una situazione migliore di quella di prima, dato che richiede molto meno impegno. Tuttavia, l’altro lato della medaglia è rappresentato dallo scarso utilizzo di quelle doti di creatività insite in ogni essere umano e dalla frustrazione che ne consegue.
Che fare? Occorre in primo luogo analizzare seriamente e a fondo la realtà del mondo del lavoro di oggi, che accomuna tutti i sistemi economici, ricchi e poveri. Dobbiamo rassegnarci all’evidenza che mostra come sarà necessario sempre meno lavoro umano per produrre i beni e i servizi che le macchine sfornano, ma vi sono i servizi alla persona di cui vi è un crescente bisogno e che le macchine non possono soddisfare.
Accettare che la formazione non sia delegata alle sole istituzioni scolastiche. Riconoscere apertamente e con i fatti che l’era del mestiere che condiziona per la vita chi lo pratica non ha più ragione di essere e rivedere quindi come complementari i ruoli della formazione scolastica, del tirocinio e del lavoro.
Se la normale giornata di lavoro fosse di 4 ore anziché di 8, la quasi totalità dei posti di lavoro sarebbe alla portata anche dei giovanissimi e delle casalinghe, che potrebbero così contribuire al reddito della famiglia, alleviando nel contempo le responsabilità del capofamiglia, la figura tradizionale intorno alla quale ha sempre orbitato il mondo del lavoro. Si aprirebbero così nuovi orizzonti che permetterebbero agli individui di apprendere e praticare mestieri che non ne condizionerebbero la collocazione nella gerarchia sociale. Tutti potrebbero studiare e lavorare allo stesso tempo, creando così le basi per rendere ciascuno padrone della propria vita e del proprio destino, realizzando così ciò che, con linguaggio non più consono ai tempi, veniva chiamata una vera DEMOCRAZIA.
I popoli del Mediterraneo, per la civiltà di cui si sono nutriti e che hanno donato a una parte rilevante del mondo, per le sofferenze che hanno patito, per le esperienze che hanno accumulato nei millenni, dovrebbero – spinti dalla necessità ma anche dalla volontà – essere i primi a indicare una nuova strada che non si trova nel programma politico di alcun partito ma che i popoli che hanno dato al mondo (e cito soltanto alcune delle arti e delle scienze) l’architettura egizia, la filosofia greca, la matematica e l’astronomia arabe, la musica, la cucina e l’urbanistica italiane sono in grado di percorrere con la tenacia e la determinazione che l’urgenza del problema richiede.
Gianni Fodella
docente
Università degli studi di Milano