Una ricetta semplice per l’Egitto in fiamme
Di fronte all’Egitto che brucia molti trattengono il respiro e i più si interrogano perplessi sul da farsi: uomini di governo, opinionisti, uomini della strada attenti alle cose del mondo. E si spiega. La posta in gioco è alta e nessuno sa cosa ci aspetti dietro l’angolo. Tutti si affannano a consultare i veri o presunti esperti, che però raramente sono anche profeti e quindi, di regola, non azzardano pronostici circa gli ulteriori sviluppi e l’esito finale di un incendio peraltro non meno imprevisto del crollo dell’Unione Sovietica. Un autorevole settimanale tedesco assicurava, alla vigilia del suo scoppio, che quanto succedeva in Tunisia non poteva estendersi al vicino Egitto. D’altronde, gli stessi esperti dicono tutto e il suo contrario riguardo ad una delle principali incognite della crisi: chi sono e cosa vogliono i Fratelli musulmani: estremisti irrecuperabili o interlocutori accettabili per le forze democratiche locali e per l’Occidente, mosche cocchiere di Al Qaeda oppure no, ecc.
Non tutti, però, hanno solo nebbia davanti agli occhi nè tutti si scervellano per diradarla. Tra chi neppure si preoccupa di appurare come stiano veramente le cose e dove possano andare a parare, avendo già idee chiarissime e ricetta pronta, spicca Giuliano Ferrara. A differenza di Lenin, che ci aveva messo un po’ per rifinire e diffondere il suo “che fare” nella Russia del 1917, il nostro Elefantino ha fulmineamente diramato per l’occasione un ordine del giorno secco e preciso. Gioco facile, per lui, che credevamo avesse avuto almeno qualche ripensamento sugli strumenti da usare negli scontri di civiltà e quindi sull’esempio da seguire: quello di George W. Bush. Di un uomo, cioè, la cui immagine consolidata sembrava ormai quella di uno dei peggiori presidenti americani o addirittura il peggiore in assoluto; e non solo, naturalmente, per i misfatti in politica estera.
Per Ferrara, invece, GWB resta un modello ineguagliabile, protagonista di una “grandissima presidenza di guerra”, l’unico capace di “contrastare, combattendo, la deriva di una grande civiltà”, così diverso dall’imbelle Carter, da Reagan, persino da Bush papà, che colpì Saddam ma non seppe finirlo, e da Clinton, che non disdegnava il ricorso alla forza ma la usò per difendere i musulmani bosniaci e albanesi dai serbi cristiani. Senza sottilizzare troppo e apparentemente in preda a repentina angoscia (nonostante i grandi successi di GWB), Ferrara scrive che “bisogna fare in fretta perché il contagio dell’Umma islamica è frenetico, incalzante” e “nell’irresponsabilità imperiale degli USA comincerà un altro ciclo di guerre e sangue, ma stavolta con l’Occidente dialogante, a mano tesa cioè insicuro di sé, in posizione di impotenza conclamata”.
Ed ecco allora la ricetta: “bisogna sperare che Obama inverta la diplomazia della mano tesa e del ritiro dal Grande Medio Oriente, affidando al generale Petraeus, al Pentagono, al Dipartimento di Stato, al National Security Council, alla CIA la definizione immediata di una nuova proposta strategica per l’ordine internazionale minacciato”. In altri termini, predisporre un’altra bella guerra preventiva a dispetto dei conclamati fallimenti della più parte di quelle anche non preventive intraprese dagli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale; la vittoria maggiore è stata quella pacifica sull’URSS.
Mentre si apprestano ad abbandonare l’Irak ad un destino quanto mai incerto e verosimilmente anche l’Afghanistan, in mani di sicuro non amiche, gli Stati Uniti, per di più economicamente indeboliti, dovrebbero dunque innescare di propria iniziativa un nuovo “ciclo di guerre e di sangue”. La cosa sembra non ripugnare, ma è il caso di stupirsene?, neppure al Ferrara crociato sia pure poco fortunato contro l’aborto. Dopotutto, la vita umana sarà anche sacra in tutte le sue fasi, ma resta a preziosità variabile. Se in Irak la popolazione civile è stata falciata a diecine di migliaia, i boys caduti sono appena tremila.
Franco Soglian