Una storia con poca democrazia
Fino a ieri si diceva, a ragione o a torto, che nell’Europa liberata dal giogo rosso sopravviveva una sola dittatura: quella di Aleksandr Lukascenko nell’ex repubblica federata sovietica di Bielorussia, ovvero Belarus nell’idioma locale. Adesso si comincia a paventare che questa sorella minore della grande Russia possa uscire dalla sua scomoda solitudine grazie ad un’eventuale e alquanto inopinata new entry nel club dei regimi autoritari. Si tratta dell’Ungheria, il cui caso solleva tanto più scalpore e interrogativi vari perché il varo a Budapest di una legge che addomestica i media e penalizza la libertà di opinione coincide con l’assunzione da parte magiara della presidenza a rotazione semestrale dell’Unione europea a partire dal l° gennaio.
Sarebbe in realtà fuori luogo prevedere gravi ripercussioni sulle pur già tribolate sorti della comunità continentale, che oltre a tutto possiede da poco anche una presidenza meno effimera nella persona dell’ex premier belga Van Rompuy, inizialmente considerato un po’ troppo grigio ma che pare avviato a smentire gli scettici. La presidenza semestrale affidata ai singoli paesi membri, che col tempo potrebbe forse venire abolita, comporta comunque competenze e responsabilità politicamente quasi irrilevanti, tant’è vero che di recente ha potuto essere esercitata senza particolari fasti ma anche senza seri inconvenienti da un titolare di minimo peso come la Slovenia.
La duplice novità richiama semmai l’attenzione su un’evoluzione, ovvero involuzione, in corso sulla scena politica di tutta l’Europa, orientale e occidentale, che premia partiti e movimenti di ispirazione sciovinistica o xenofoba, inclini a trattare i problemi di minoranze con approcci tali da renderne più ardua la soluzione e da turbare i rapporti interstatali e quelli con la UE. L’ultima impennata magiara è stata preceduta dall’avanzata di una formazione di estrema destra oscurata poi dal trionfo elettorale e dal ritorno al potere, nello scorso aprile, del centro-destra (partito Fidesz). Il quale, però, ne ha recepito almeno in parte le posizioni concedendo la cittadinanza ungherese alle centinaia di migliaia di connazionali viventi in Romania, Slovacchia e Serbia (con conseguenti reazioni negative di questi vicini), infierendo sui rom domestici (in sfida alle direttive comunitarie) e non disdegnando accenti antisemiti altrettanto riecheggianti un disdicevole passato.
Per il momento, comunque, spicca e persino sorprende l’apparente strappo verificatosi nel sistema politico magiaro con l’adozione di norme liberticide e repressive, la collocazione di fiduciari del nuovo governo anche alla testa di organi statali che dovrebbero essere di controllo e garanzia, il depotenziamento punitivo della Corte costituzionale e così via. Il tutto sotto la guida grintosa, per usare un eufemismo, di Viktor Orban, ancor giovane tribuno già dissidente nel periodo comunista e, dopo il ribaltone, acceso contestatore dei nuovi partiti maggiori, liberal-conservatori o socialisti che fossero, rei di non distanziarsi a sufficienza dal passato regime. Abbinata ad un irruente populismo, questa linea gli ha consentito di far crescere via via l’inizialmente piccola Fidesz, portarla una prima volta al potere dal 1998 al 2002 e condurla infine, lo scorso anno, a conquistare la maggioranza assoluta dei voti e due terzi dei seggi in parlamento, spodestando i socialisti screditati da otto anni di governo all’insegna della litigiosità, inefficienza e scandali.
In realtà il PS magiaro aveva cambiato di parecchio volto e anima rispetto al partito di ex comunisti che potevano vantare il merito di avere preparato l’Ungheria ancora sotto egemonia sovietica alla svolta del 1989 meglio di qualsiasi altro paese “satellite” in campo sia economico sia politico. Come tutti ricorderanno, fu proprio il governo di Budapest a spianare la strada anche alla riunificazione tedesca aprendo la frontiera, ossia il proprio tratto della “cortina di ferro”, all’esodo dei tedeschi orientali verso la Repubblica federale. A ben guardare, proprio la seconda fase del periodo comunista, quella successiva alla repressione dell’insurrezione del 1956 contro il regime sanguinario di Rakosi e improntata alla ricerca di una versione umanizzata e più funzionale del “socialismo reale” coronata infine, sempre sotto la popolare direzione di Janos Kadar, dai primi passi verso la democratizzazione e liberalizzazione economica, è stata forse la stagione migliore nella storia moderna del paese, complessivamente povera di momenti di grazia nonostante l’ammirazione suscitata dagli emblematici eroismi del 1848-49, gli anni dell’altra rivolta (soffocata già allora dall’intervento russo) contro la soggezione all’Austria.
Quando infatti Budapest ottenne più tardi la condivisione con Vienna della gestione dell’impero asburgico trasformato in Duplice monarchia, fece cattivo uso di questo recupero del prestigio nazionale se non proprio della potenza e delle glorie dell’antico regno medievale e rinascimentale. Il paese rimase per vari aspetti arretrato e il duro trattamento delle numerose minoranze etniche al suo interno (romeni, slovacchi, croati), in spregio ai precetti del fondatore di quel regno, Santo Stefano, che considerava la multinazionalità una ricchezza e un punto di forza, contribuì a provocare il crollo del vecchio impero e la rovina della stessa Ungheria, ridotta a Stato pienamente indipendente sì, ma di dimensioni molto modeste per effetto delle fin troppo drastiche amputazioni territoriali subite dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale.
La conseguente umiliazione e frustrazione favorirono, dopo la breve esperienza di un regime bolscevico abbattuto da truppe francesi e romene, l’avvento della reggenza conservatrice-autoritaria dell’ammiraglio Horthy e l’affidamento al legame con l’Italia fascista e la Germania nazista, sfociato a sua volta in una disastrosa partecipazione al loro fianco al secondo conflitto mondiale e nella successiva caduta sotto l’indiretto dominio sovietico. Come si vede, non si può dire che nella tradizione nazionale brillasse una robusta vocazione democratica, peraltro difficile da coltivare nelle circostanze degli ultimi due secoli come pure, del resto, una felice convivenza con altri popoli.
Si deve invece considerare ingiustificata, alla luce dei precedenti, ogni sorpresa per l’impennata autoritaria di fine 2010, e prevedere semmai la conferma e il consolidamento di una nuova svolta che potrebbe anche assomigliare ad una ricaduta? Favorita, magari, da una più generale tendenza ad una sorta di “putinizzazione” che l’”Economist” crede di scorgere nell’Europa orientale? Nulla, per fortuna, è scontato in anticipo, sia perché ad ogni azione segue una reazione, sia perché le tradizioni che mancano o sono fragili possono sempre nascere o irrobustirsi.
Da rilevare, più specificamente, che il colpo di testa di Orban si colloca nel contesto di una crisi economica che in Ungheria ha infuriato come in pochi altri paesi minacciando di provocarne la bancarotta ed è stata tamponata solo con il massiccio soccorso finanziario del Fondo monetario e dell’Unione europea. Le cifre di base, per la verità, non sono particolarmente impressionanti (debito pubblico al 70% del PIL, deficit di bilancio al 3,8%, disoccupazione al 10%), per cui ha sollevato qualche scetticismo e persino sospetto, nella scorsa estate, il grido d’allarme per un asserito rischio di insolvenza lanciato da un alto esponente governativo.
Quali che siano lo stato dei conti pubblici e le prospettive dell’economia reale, Orban e i suoi collaboratori hanno ritenuto indispensabile adottare misure assai drastiche per promuovere crescita e occupazione. Al fine di creare in 10 anni un milione di nuovi posti di lavoro, molti per una popolazione di 10 milioni, si punta sulla riduzione delle imposte ma anche a spremere risorse dalle banche (comprese quelle straniere, predominanti), con le quali è stata ingaggiata una dura prova di forza, e dai redditi più elevati, senza risparmiare quelli del personale politico. Oltre a ridurre, infatti, il numero dei parlamentari da 386 a 200, sfoltendo altresì le assemblee degli enti locali, sono stati fissati tetti retributivi validi per tutti a partire dal presidente della Repubblica. Portando lo stipendio massimo a 2 milioni di fiorini, pari a circa 10 mila dollari, quello del presidente della Banca nazionale, ad esempio, è stato tagliato dell’80%.
Di regola, simili imposizioni incontrano forti resistenze capaci di provocare contraccolpi destabilizzanti. Non è perciò da scartare l’ipotesi che Orban abbia ritenuto opportuno cautelarsi disarmando le opposizioni, magari in via temporanea. Ma naturalmente il gioco sarebbe comunque pericoloso, e si sa d’altronde che le cattive abitudini attecchiscono più facilmente di quelle buone.
Franco Soglian