Ascoltare alla radio una rassegna dei giornali fatta da Mario Deaglio è un’esperienza a parte. A differenza d’altri rassegnatori -editorialisti molto letti e frullatori del nulla, opinioniste militanti/petulanti, giovani lupi di redazione, eccetera- Deaglio presta il know-how del cattedratico, e un tono e un timbro di quando il Piemonte faceva l’Italia, a una vocazione a interrogarsi sul futuro. La sua è una rassegna che storicizza e profetizza. Non dice soltanto, come stamane, che “solo nel 2015 recupereremo i livelli di prima della crisi; ci aspettano cinque anni amari nei quali saremo sorpassati da paesi che stavano dietro di noi”. Dice anche che nello Stivale quasi tutti gli aspetti di sistema sono negativi, quelli politici peggio degli altri; che tutti noi, non solo la classe dirigente, dovremo concepire una soluzione grossa; che lui Deaglio ora come ora non la sa concepire.
Dunque ascoltare Deaglio è ascoltare un profeta sconsolato, testimone di una verità piena di destino ma muta. Io e pochi altri ricaviamo la seguente conferma: maturano le condizioni perché gli Italiani riprendano, come altre volte nel passato, a inventare cose magari sbagliate ma telluriche, squassanti, non convenzionali, più creative rispetto a quelle degli altri: il Papato imperialista e antievangelico che nel secolo XII umiliò i grandi sovrani; il Rinascimento piacevole e meretricio; il teatro lirico; il fascismo. Fu pure invenzione grossa la trasformazione in impero del villaggio pastorale di Romolo e Remo, trasformazione che trafisse di stupore Theodor Mommsen.
Dopo sessantacinque anni e due o tre ‘repubbliche’, cioè cambi di assetti oligarchici e di patti tra gangster, abbiamo la certezza provata che questa politica necrotizza quasi tutto, senza scampo. Che una chirurgia aggressiva e impietosa sanerebbe molti mali: la consunzione etica, l’impotenza dei governi prigionieri dei ricatti elettorali, le parentopoli, il saccheggio generalizzato ogni giorno dell’anno. Su tutto ciò si concorda, ma si concorda anche -ossessivamente- che non c’è niente da fare. Che la montagna non andrà a Maometto.
Allora, se i politici di questa democrazia non si convertiranno mai al bene e non riformeranno mai nulla, non resta che demolire questa democrazia. E se la rivoluzione di popolo è impossibile, occorre la rivoluzione dall’alto, senza le urne, contro le urne. Ben più rivoluzione di quella di de Gaulle, la quale si accontentò di un poco che, grazie alle urne, durò poco.
Io e pochi altri crediamo che il potere dovrà passare dai pochi -gli oligarchi ladri- al popolo dei molti qualificati. Saranno impossibilitati a rubare, perché non eletti ma scelti dal sorteggio elettronico per rotazioni ravvicinate e sottoposte ai controlli implacabili di altri sorteggiati dal computer. Dovranno governare, per non più di un anno, i condannati al disinteresse, individuati random.. Le urne andranno sfasciate. Sono trappole per topi e reti per sardine.
Tutto ciò mai lo farà la classe politica. Lo farà, solo all’inizio, un Grande Eversore/Ostetrico il quale cambi ‘tutto’ con la forza trascinatrice della demagogia, oppure con la minaccia – basta quella- della forza. Se no, tenetevi la lebbra divoratrice. Voi giovani soprattutto, che restate prigionieri del passato, affezionati alle ideologie delle mummie.
A. M. Calderazzi