Dalla miseria alla prosperità…e ritorno

Quando Mazzini fonda a Berna la “Giovine Europa” nel 1834 le sorti del mondo sono nelle mani delle potenze europee, eppure i popoli delle nazioni più potenti d’Europa sono caratterizzati dalla miseria più nera:

Dickens pubblica “Oliver Twist” nel 1837-38, Marx attinge a documenti ufficiali del Parlamento inglese e ai numerosi studi sul pauperismo per documentarla nel Libro Primo de “Il Capitale”. La sia pur parziale presa di coscienza di questa intollerabile miseria porta alla nascita dello stato sociale moderno nella Germania di Bismarck nel 1883-89. Le idee socialiste, il successo dei bolscevichi e la loro presa del potere in Russia spingono i governi socialdemocratici sulla stessa strada. Ma le condizioni di vita rimangono cattive in Europa (come testimonia George Orwell in “Down and Out in Paris and London = Senza un soldo a Parigi e a Londra” 1933 e in “Fiorirà l’aspidistra” 1936) e non sono affatto buone anche negli Stati Uniti, il paese idealizzato come il più ricco e felice del mondo, e peggiorano dopo la crisi del 1929 come mostra magistralmente Steinbeck in “The Grapes of Wrath = Furore” 1939.

Gli Stati Uniti, con una popolazione inferiore ai 4 milioni nel 1790, di 31 milioni di abitanti nel 1860 che diventano 91 nel 1910, totalmente dipendenti dall’Europa per scienza e tecnologia, sono dalla fine dell’Ottocento il maggior produttore agricolo e manifatturiero del mondo. Ma ciò non poteva sorprendere: la terra non costava nulla perché era stata sottratta agli abitanti originari sterminati o confinati nelle riserve, buona parte della manodopera era stata allevata nei paesi poveri dai quali proveniva e si era trasferita in America nel fiore degli anni. Le condizioni miserevoli di molti non faceva notizia, anche perché il governo era espressione del mondo degli affari e tendeva a porre l’accento sulle grandi possibilità offerte ai più intraprendenti e capaci indipendentemente dalla loro origine sociale.

Gli USA sono quindi un unicum per quanto riguarda le loro origini e la loro storia intrisa di ipocrisia (si predica il libero scambio e si pratica il protezionismo fin dagli albori, si fa la guerra civile 1861-65 per abolire la schiavitù ma non si fanno diventare cittadini gli ex-schiavi se non un secolo dopo) e di sopraffazione (ci si espande territorialmente sottraendo territori al Messico e si asserviscono agli interessi yankees le ex-colonie di Spagna e Portogallo). I loro stili di vita sono fondati su abitazioni di legno vaste ma precarie e poco durature, su una cucina che ha ben poche attrattive, sul bigottismo e il fondamentalismo religioso, sull’isolamento superabile in modo costoso con mezzi di trasporto soprattutto privati. Non dovrebbero quindi poter essere un modello per nessun paese, e soprattutto per i paesi europei, ma in qualche modo invece lo diventano.

Persino la diffusione di massa dell’automobile (dal 1909), mezzo utile per superare l’isolamento nel quale vivono le comunità urbane e rurali americane, spinge nel corso del Novecento alla motorizzazione privata nche i paesi europei densamente popolati e caratterizzati da città di origine antica inadatte a un pesante traffico automobilistico.

Per contrastare la miseria che caratterizza l’Europa nasce la previdenza sociale e il /welfare state/ farà sentire i suoi benefici dopo la seconda guerra mondiale. Ma negli S.U. non si sente il bisogno di queste misure: la domanda mondiale di qualsiasi prodotto cresce e gli USA sono pronti a fornirli.

Nel 1967 l’economista americano E. F. Denison pubblica “Why Growth Rates Differ. Postwar Experience in Nine Western Countries” nel quale analizza le ragioni che hanno portato i paesi europei considerati (si noti che l’Italia non è tra questi) ad avere dei tassi medi di crescita dell’economia superiori a quelli degli Stati Uniti. Denison parte dal presupposto che le condizioni di vita prevalenti negli SU del 1925 siano sostanzialmente le stesse, dal punto di vista del benessere materiale, di quelle del 1960 nei paesi europei più sviluppati ivi considerati: un divario di ben 35 anni che tuttavia verrà presto colmato. I livelli medi di benessere dell’Europa economicamente sviluppata (Italia compresa!) entro il 1990 sono infatti paragonabili, e per alcuni aspetti sono persino superiori, a quelli che caratterizzano l’America, come testimonia anche la prima edizione dello Human Development Report (UNDP 1991) che irrita non poco le autorità degli Stati Uniti.

Non bastano il maggior reddito spendibile e il più elevato consumo di energia a far ritenere che il benessere materiale sia maggiore negli SU. Là le automobili sono più grandi, più voraci di carburante, coprono mediamente distanze maggiori. Le abitazioni e gli uffici sono non soltanto riscaldati d’inverno, ma anche rinfrescati d’estate facendo uso di energia in ogni stagione. Le spese per l’abitazione (fatta di materiali poco duraturi) riguardano tutti nel corso della loro vita, mentre da noi è sufficiente che una generazione ne faccia l’acquisto per passarla poi a quelle successive che dovranno soltanto provvedere alle eventuali riparazioni. Le spese per l’istruzione dei figli, con il degrado che caratterizza la scuola pubblica americana di ogni ordine e grado, è divenuta una delle voci imprescindibili di ogni bilancio familiare. Questa tendenza comincia a verificarsi anche da noi, ma la tradizione di eccellenza della scuola pubblica italiana resiste ancora, e in misura maggiore di quanto i mezzi di disinformazione di massa non facciano credere. Ma intanto anche da noi, senza che lo giustifichino né condizioni climatiche né temperature, si seguono da tempo modelli costruttivi che implicano persino edifici con finestre che non si possono aprire, mentre nella maggior parte del territorio italiano potremmo godere dell’aria “incondizionata” fornita da madre Natura per quasi tutti i mesi dell’anno.

In America, come in Europa, le condizioni generali di vita dei meno abbienti sono andate peggiorando negli ultimi due decenni e la crisi finanziaria scatenata nel 2007 dall’avidità di gestori e risparmiatori soprattutto anglosassoni ha peggiorato la situazione colpendo tutti, e forse in maggior misura proprio chi non aveva alcuna responsabilità nel generarla.

Anche in America ci sarebbe quindi più che mai un gran bisogno di alcune istituzioni dello stato sociale. Ma da un lato le reali condizioni di vita prevalenti in Europa sono completamente ignote agli americani (che
non conoscono le lingue straniere, che non vanno all’estero e che quando viaggiano lo fanno in un modo che non favorisce la conoscenza della vita delle persone che abitano i luoghi visitati o che sono la destinazione di soggiorni anche prolungati come accade alla famiglie dei militari di stanza nelle basi o ai militari in missione nei teatri di guerra) per non parlare del fatto che l’Europa tende a disfarsi di queste istituzioni per assomigliare sempre di più all’America. Per esempio l’abolizione in Italia della cosiddetta “scala mobile” – attuata nel 1992 – ha privato il Paese di uno strumento che consentiva ai lavoratori di mantenere (quasi) inalterato il potere d’acquisto dei propri salari e alle imprese di godere di una domanda di beni e servizi costante.

Così stando le cose è impensabile che l’America voglia dotarsi di quelle istituzioni dello stato sociale di cui l’Europa è sul punto di disfarsi, senza una vera ragione se non quella di favorire il settore bancario-assicurativo che propone varie formule di risparmio gestito, ma che non potrà mai assicurare dei redditi sufficienti a mantenere uno standard di vita come quello derivante dal salario e, ancora oggi (ma fino a quando?), dalla successiva pensione maturata.

Gli Stati Uniti, stampando il dollaro americano, la moneta usata nelle quotazioni dei beni transati internazionalmente e quale strumento di riserva, possono permettersi di pagare i dipendenti pubblici e i materiali bellici e civili prodotti dalle imprese americane per alimentare le loro guerre in giro per il mondo e fare tutti (o quasi) felici senza costi per il contribuente americano il quale, spinto dal sistema a fare acquisti contando sul reddito futuro, si trova a mal partito quando questo reddito si rivela inadeguato o comunque al di sotto di quello atteso.

E veniamo a Mirafiori e ai superbonus …

La FIAT non cessa di deludere. Collusa con il potere politico fin dalla sua nascita, ha goduto di posizioni sostanzialmente monopolistiche che non ha utilizzato per innovare ma soltanto per incamerare i profitti a beneficio della proprietà. Divenuta – così si dice, ma la realtà è più complessa – un’impresa privata come le altre, dichiara di non poter produrre in Italia senza far scomparire ogni traccia di diritto per i lavoratori coinvolti: i costi connessi al lavoro sarebbero troppo alti.

Come mai allora, dovremmo chiederci, la produzione automobilistica continua in paesi ad alto reddito come Germania, Giappone e Stati Uniti?

La Germania continua ad essere il quarto produttore di autoveicoli del mondo: 5,2 milioni nel 2009 e 6,2 nel 2007. La sua produzione è diminuita in termini assoluti (anche perché la produzione mondiale è passata da 73 milioni di autoveicoli nel 2007 a 61,7 nel 2009) ma è rimasta quasi inalterata come percentuale della produzione mondiale (dall’8,49% all’8,43%), un dato importante che rivela stabilità ove si pensi che nello stesso arco temporale il Giappone è passato dal 15,88% al 12,86% e gli Stati Uniti dal 14,73% al 9,25%. Naturalmente questi dati risentono della presenza ormai esorbitante e travolgente della Cina che è passata dal 12,17% al 22,35% della produzione mondiale e della Corea del Sud, ormai quinto produttore mondiale passato dal 5,60% al 6,84%. Si noti che questi soli tre paesi dell’Estasia coprivano nel 2007 il 33,65% della produzione automobilistica mondiale divenuto il 42,05% nel 2009. In quel breve spazio temporale l’Italia è passata dal 14-esimo (1,284 milioni) al 18-esimo posto (843.239 auto). Eppure i nostri managers rivendicano il diritto ad essere pagati in un modo semplicemente scandaloso per l’entità degli emolumenti, per tacere dei risultati deludenti. Proprio come accade in America .…

Il direttore cinese della fabbrica di calze che mostra con orgoglio il suo impianto che dalla Cina esporta in 153 paesi e che è attrezzato con le più moderne macchine (comprate dalla fabbrica italiana che le produce in provincia di Brescia) dovrebbe farci riflettere sui luoghi comuni che circolano intorno alla delocalizzazione e all’importanza cruciale del costo del lavoro. In questa fabbrica, situata in Cina, il personale addetto alla produzione è ridotto al minimo, dato che si tratta di un processo produttivo che fa uso di macchine altamente automatizzate.

Se i cinesi fossero davvero molto più bravi di noi non comprerebbero i nostri macchinari ma se li fabbricherebbero da soli. Perché un imprenditore cinese ha successo facendo uso delle nostre macchine? Non per via del minor costo del lavoro che non può incidere sensibilmente in una produzione a intensità di capitale relativamente alta.

Il fatto che chi si occupa di finanza abbia un successo economico maggiore di chi produce beni e servizi, non incoraggia i veri imprenditori. Un vero imprenditore – e in Italia ce ne sono davvero tanti, che reggono sulle loro spalle il Paese – non pensa continuamente a dove andrà a localizzare i suoi impianti per ottenere un risparmio che potrà anche rivelarsi controproducente, ma cercherà di migliorare il suo prodotto per accrescere il numero dei suoi clienti e ottenere così la soddisfazione che i veri imprenditori hanno perseguito da sempre, per l’autostima e con la consapevolezza di essere grandi come membri della società.

L’elemento generazionale non va trascurato. I figli di molti imprenditori sono inadatti a esercitare il mestiere paterno, dato che imprenditori si nasce, o possono essere convinti dalle mode dominanti a seguire e non a precedere come fa l’imprenditore che vede più lontano e prima degli altri. Per esempio l’Ing. De Benedetti, esercitando l’ingegneria finanziaria, ha distrutto un’impresa unica al mondo come la Olivetti. Così alle prime difficoltà si chiude o si accettano offerte che finiscono per distruggere l’impresa. Le maestranze esperte vengono disperse e il sistema economico ne soffre.

Ciascuna di queste piccole cose ci spinge alla resa, la nostra visione del mondo non ci fa guardare al futuro con ottimismo. La fiducia dei giovani, senza prospettive di un lavoro stabile e che dia soddisfazioni, non ha appigli per sopravvivere. Ci si adagia, si leggono i giornali, si ascoltano i politici e la sensazione di trovarsi in un deserto di valori si fa certezza. Nessuno storico e nessun sociologo potrà mai spiegare quei fenomeni che hanno inizio come invisibili movimenti orogenetici che si rivelano alla lunga più sconvolgenti dei terremoti. Per capirci qualcosa bisogna leggere la grande letteratura e guardare i quadri dipinti dai grandi maestri …

Gli Stati Uniti ci hanno dato il parafulmine e l’alfabeto Morse, ma anche la macchina della verità e l’IQ insieme ai test per misurare l’intelligenza delle “razze” umane. Non dovremmo quindi prenderli troppo sul serio e prestar loro fede come modelli; men che meno imitare i loro vizi. Ma lo stiamo facendo e condividere nientemeno che con la grande America il declino non lo renderà meno duro per i nostri figli.

Gianni Fodella