W LA CORRUZIONE?

Dove può portare l’ansia revisionistica.

Perbacco, ma allora abbiamo sbagliato, eravamo fuori strada, è tutto da rifare o almeno da rivedere. Traditi forse dall’entusiasmo giovanile, siamo partiti in quarta ad illustrare e denunciare la diffusione della corruzione nel vecchio continente, nel presupposto, apparentemente persino banale, che si trattasse di un nemico da combattere, di una piaga da curare. Affetti forse da spirito di mandria, cercavamo di dare un sia pur minimo contributo ad una causa che ci sembrava largamente condivisa nel mondo, almeno a parole. Probabilmente vittime anche dei luoghi comuni ovvero del cosiddetto “politicamente corretto”, non siamo stati attenti alle trappole che la vita spesso tende a chi si lascia trascinare dalle buone intenzioni fidandosi, come prescriveva Oscar Wilde, delle prime impressioni anziché perdere tempo a scavare sotto la superficie.

Fortunatamente c’è chi si preoccupa di approfondire e indagare in tutte le direzioni sfidando intrepidamente la conventional wisdom pur di scovare la luce della verità anche, se necessario, là dove gli altri non si avventurano. Nel nostro caso (penoso, bisogna dire, e ne chiediamo senz’altro scusa ai nostri lettori) la luce è venuta, improvvisa e folgorante, da una lunga recensione che Paolo Mieli ha dedicato, sul Corriere della sera, al libro di un autore straniero sinora ignoto, almeno a noi; ma anche qui rischiamo di doverci scusare. Ben sappiamo, comunque, che contano solo l’analisi dei fatti e la forza delle argomentazioni, non la fama.
Ecco dunque come ci illumina Gaspard Koenig, queste le generalità dell’autore, che peraltro cita anche le intuizioni di alcuni precursori. Per quanto riguarda i fatti, egli ci informa che una fitta schiera di grandi uomini, politici e militari come Pericle o Napoleone, amministratori e diplomatici, ecc., sono stati dall’antichità a oggi, compresi molti insospettabili o insospettati, tutt’altro che incorruttibili o addirittura corrotti fino al midollo. Sorprendente? Non si direbbe, dal momento che secondo una conventional wisdom ancora non contestata, che si sappia, “nessuno è perfetto”. Non stupisce né scandalizza più di tanto, cioè, che uomini anche davvero grandi, ai quali cioè l’umanità debba gratitudine per qualche buon motivo, non siano stati modelli di virtù sotto ogni aspetto.

Sorprende alquanto, invece, la conclusione che il Nostro ne trae, per quanto suffragata da teorizzazioni di celebri anticonformisti se non provocatori quali Nietzsche e Borges. Noi ci saremmo accontentati di continuare ad apprezzare i meriti passando sopra al difetto. Il Koenig ritiene invece che il presunto difetto sia solo l’altra faccia dei meriti, ovvero che questi ultimi non ci sarebbero stati senza quello e che, in definitiva, l’umanità debba di più ai corrotti che agli onesti. Il suo, precisa, “non è un appello alla corruzione, ma la difesa di un fenomeno ingiustamente biasimato, al quale forse siamo debitori di ciò che abbiamo di meglio”.

A questo punto possiamo anche revocare le scuse ai lettori, visto che dire e disdire sembra diventato un costume nazionale, ed esprimere non poca sorpresa anche per la conclusione di Mieli. Il quale, se non arriva a sottoscrivere la tesi in questione, la conforta tuttavia in una certa misura con proprie considerazioni e la definisce “ardita…ma meritevole di una qualche riflessione”. Rendiamo pure il dovuto omaggio all’equilibrio del commentatore e alla spregiudicatezza del cultore di storia che caratterizzano l’ex direttore del Corriere. Gli dobbiamo però domandare se sia proprio sicuro che questa sua ultima recensione sia altresì improntata a quella sensibilità politica, o anche politico-morale, che ugualmente lo contraddistingueva, se non andiamo errati. Se, cioè, convenga alimentare in qualche modo il dubbio che la corruzione sia davvero un male da combattere, specie in un paese nelle condizioni dell’Italia al confronto con altri paesi ai quali generalmente si paragona.

Può darsi che il malaffare, almeno sotto certi climi e negli stadi iniziali di certi processi, serva a lubrificare proficuamente i meccanismi dello sviluppo economico e persino civile ovvero del progresso in generale. Da noi, però, si stima che il suo costo (50 miliardi all’anno) equivalga al 30% in più degli interessi che lo Stato sborsa annualmente per onorare il debito pubblico, macigno che ostruisce la via del nostro sviluppo oltre che spada di Damocle incombente sulla solvenza dell’impresa paese. Guardando poi oltre confine, come negare che lo sconquasso provocato in mezzo mondo e comunque in tutto l’Occidente da pratiche finanziarie quanto meno irresponsabilmente avventate, al limite dell’illecito e improntate alla più sfrenata avidità abbia a che fare con qualcosa di attiguo, come minimo, alla corruzione vera e propria?

Questo per limitarci agli aspetti puramente contabili della questione. Il discorso potrebbe allargarsi a quelli sociali, oltre naturalmente a quelli etici. Dobbiamo forse aspettarci che qualcuno si senta incoraggiato ad abbozzare la riabilitazione di altri lubrificanti o propellenti come il furto e la frode o, perchè no, la pedofilia? E che questo qualcuno trovi qualcun altro ben disposto a rifletterci sopra?

F.S.