Per capirci meglio.
L’ex direttore dell’”Economist”, Bill Emmott, ci ha spiegato dalla prima pagina della “Stampa” come e perché il nuovo premier britannico, David Cameron, è più audacemente riformista del suo predecessore, Tony Blair, campione del New Labour e icona del socialismo moderno. Non c’è da meravigliarsi. Blair aveva certamente risollevato dalla polvere il laburismo d’oltre Manica e governato a lungo il suo paese con relativo successo, prima che i vari ripensamenti sulla guerra all’Irak e l’esplosione della crisi economico-finanziaria mondiale oscurassero il suo personale operato e screditassero il modello britannico legato al suo nome. In fondo, però, questo modello tanto esaltato altro non era che una versione un po’ edulcorata, se si vuole più “compassionevole”, come si dice da quelle parti, del conservatorismo di Margaret Thatcher.
Quanto al giovane Cameron, non c’è dubbio che il suo programma, peraltro appena varato e quindi in attesa della prova del fuoco, brilli per ambizione, ampiezza di vedute e al tempo stesso per uno spregiudicato empirismo che a Londra come si sa è di casa. Ma Cameron è pur sempre un “tory” come la Thatcher, anche se ora alleato con i liberali e benché il suo disegno di “big society” rechi un’impronta, appunto, piuttosto liberale e anzi persino tale da suscitare l’interesse di gente di sinistra. La sua comunque è solo una conferma che tutto, o quasi tutto, quanto si propone, si fa o si disfa, si tenta o si finge di fare ormai da molti anni a questa parte per riformare, innovare, cambiare, ecc. proviene da destra e non da sinistra, e quando proviene da sinistra si tratta per lo più di farina presa da sacchi altrui.
Per venire a noi, una delle poche riforme qualificanti compiute o tentate dal centro-sinistra sotto il governo Prodi furono le lenzuolate liberalizzatici di Bersani, semifallite sia per troppa timidezza sia per l’ostruzionismo dell’allora opposizione, inscenato un po’ per principio e un po’ per la solidarietà post-missina con i tassisti della Città eterna. Da annoverare altresì la riforma del Titolo V della Costituzione, attuata per accattivarsi un po’ la Lega aprendo una porta al cosiddetto federalismo. Tutto ciò non impedisce al Partito democratico di autodefinirsi preferibilmente riformista, come del resto uno dei quotidiani della sua area e come se fossimo ancora negli anni della guerra fredda quando i riformisti di sinistra si dichiaravano tali per distinguersi dai rivoluzionari, comunisti o socialisti, oggi scomparsi.
Quanto alla parte avversa, ci limitiamo a citare tre articoli della “Neue Zuercher Zeitung” pubblicati durante il periodo di (finora) più lunga permanenza al potere di Berlusconi. L’autorevole quotidiano elevetico, tanto comunista quanto può esserlo un organo vicino ai mitici “gnomi” di Zurigo, così intitolava perplesso un editoriale dell’11 giugno 2002, dopo un anno di governo del centro-destra: “Wie liberal ist die Casa della libertà?”. Il 20 gennaio 2006, avvicinandosi la scadenza della legislatura, sosteneva che Berlusconi non doveva neppure ripresentare la propria candidatura non avendo mantenuta alcuna delle sue promesse. Il 23 marzo 2006, infine, tirava le somme di quella gestione affermando che aveva apportato più Stato e meno libertà economica.
Colpa della magistratura e dei comunisti in generale? Limitiamoci, per carità di patria, a constatare che gli uni sono tuttora in debito di riforme promesse, più o meno consone alla loro etichetta ma comunque utili a migliorare un paese che ne ha bisogno più che urgente. E che gli altri devono ancora chiarire quali riforme quali che siano abbiano davvero in mente, se le hanno e ne hanno di condivise al proprio interno. Forse non è mai troppo tardi, ma forse sì.
Nemesio Morlacchi