Mentre per l’Occidente la data del giro di boa nella vita politica è generalmente indicata nel 1989, per la Turchia l’inizio di una lunghissima e non ancora conclusa transizione risale al 1980, data dell’ultimo colpo di stato militare, il terzo dal 1960. Fu quello l’ultimo tentativo dell’establishment militare di fede kemalista di costringere ad una modernità di tipo occidentale un paese la cui anima profonda evidentemente era e resta intimamente legata ad una propria forte individualità, nella quale l’aspetto religioso conserva un ruolo primario anche se non esclusivo. Un’individualità religiosa sì ma soprattutto ottomana; proprio questa, al di là delle apparenze, ieri costituiva il substrato su cui si sviluppava il disegno politico del laico Mustafà Kemal Ataturk, e oggi anima l’azione dell’attuale classe dirigente, non per nulla definita neo-ottomana. Accanto alla propria rivendicata identità islamica, gli attuali dirigenti perseguono con lucidità un disegno di riscatto economico e sociale all’interno e un ruolo internazionale non più limitato a quello di avamposto dell’Occidente in Medio Oriente, tracciando il profilo di una dinamica potenza regionale, portatrice di istanze e ambizioni proprie.
Paradossalmente l’esercito – rimandato abbastanza ruvidamente nelle caserme ( recentemente una quarantina di alti ufficiali è stata arrestata con l’accusa di tramare per il rovesciamento del governo, mentre il referendum costituzionale vinto dal governo il 12 settembre ne ha sostanzialmente ridotto le funzioni e l’autonomia) ha avuto un ruolo non secondario in questa evoluzione. Col colpo di stato del 1980 i militari del generale Evren ritennero di poter liberare una volta e per sempre il paese dalle forze politiche che nei decenni precedenti avevano insidiato la cosiddetta “ rivoluzione kemalista” laica, occidentalizzante e nazionalista.
Sciolsero i partiti, ne vietarono la ricostituzione e colpirono con l’interdizione a partecipare alla vita pubblica per dieci anni gli esponenti politici attivi al momento del loro intervento. Contemporaneamente però, sulla scorta dell’esperienza di oltre mezzo secolo, ritennero di dover concedere qualcosa alla “Turchia profonda” ( cioè religiosa), il che si tradusse essenzialmente in un allentamento del rigido laicismo perseguito fino a quel momento. Fu revocato il divieto di istituire scuole religiose, si permise l’avvento al potere di personalità dichiaratamente “pie” come, per fare un solo nome, il defunto primo ministro Turgut Ozal (dal 1982, poi successore dello stesso Evren alla presidenza della Repubblica). Da allora in Turchia la religione ha progressivamente guadagnato spazi nella vita pubblica, pur senza assumere i caratteri dell’integralismo.
Ciò ha avuto conseguenze importanti sia sullo sviluppo economico sia sul posizionamento internazionale del paese. Il “ritorno all’Islam”, per quanto limitato per il momento, ha comportato un’attenuazione della tradizionale diffidenza dei vicini paesi musulmani verso quello che, oltre ad averli dominati al tempo del califfato, si distingueva per i suoi rapporti di amicizia nei confronti dell’Occidente e di Israele. Ricordiamo che la Turchia è stata, insieme all’URSS, il primo paese a riconoscere lo Stato ebraico, con il quale ha intrattenuto da allora importanti rapporti economici, estesi perfino al settore delle forniture militari).
Questa evoluzione ha avuto come conseguenza importante che, mentre le istituzioni economiche internazionali lesinavano i propri aiuti alla Turchia, questa otteneva finanziamenti e cooperazione dai paesi islamici, in particolare dall’Arabia Saudita: oggi le gravi difficoltà economiche dei decenni scorsi sembrano superate e la Turchia vive una promettente fase di sviluppo, sostenuta, tra l’altro, dall’affermarsi di una nuova classe media, dinamica e consapevole.
Le relazioni di Ankara con Damasco -dove le ragazze collezionano le foto di Erdogan e si moltiplicano i corsi di lingua turca- Baghad, Riad e perfino Teheran sono migliorate progressivamente, mentre peggioravano quelle con Tel Aviv. Dopo il clamoroso scontro tra Erdogan e Simon Peres a Davos (2009), ed altri momenti di tensione diplomatica, i rapporti turco-israeliani hanno toccato il punto più basso in seguito all’incidente della Mavi Marmara, la nave attaccata dalle forze israeliane mentre viaggiava verso Gaza con un convoglio destinato a portare aiuti umanitari all’enclave palestinese, tentando di forzare il blocco imposto da Israele.
All’opposto, i rapporti della Turchia di Erdogan con l’Unione europea sono resi problematici dal deciso rifiuto di Francia e Germania di procedere verso l’integrazione a pieno titolo del paese anatolico nell’Unione europea. Questo percorso era stato virtualmente tracciato nel lontano 1963, anno del primo trattato di associazione tra Ankara e Bruxelles. Questo prevedeva lo sviluppo di una cooperazione sempre più intensa in vista di una piena adesione di Ankara alla Comunità europea (poi divenuta Unione), allora fissata nel 2000. Mano a mano che tale data si avvicinava però gli adempimenti richiesti dai partners europei si estendevano da quelli economici a quelli relativi al più difficile consolidamento delle istituzioni democratiche, al rispetto dei diritti civili e delle minoranze nei termini definiti dai trattati europei.
Nonostante gli sforzi in tali ambiti compiuti dalla Turchia e anche sotto al spinta di problemi interni all’Unione, in particolare quelli creati dall’immigrazione, Parigi e Berlino ( ma è assai probabile che le due capitali interpretino la volontà non espressa anche degli altri partners, esclusa forse la Gran Bretagna anche a questo riguardo più vicina alla posizione degli Stati Uniti) sono decise a cristallizzare i rapporti tra la Ue e la Turchia al livello di una cooperazione regolata da un buon trattato di associazione, archiviando a tempo indeterminato la questione dell’adesione e impedendo così che Ankara possa ottenere per via diplomatica quello che al Sultano fu negato a Lepanto e a Vienna.
Questo fin de non recevoir europeo ostacolerebbe il progetto più ambizioso attribuito alla politica estera turca: (ri-)conquistare una vasta area di influenza, che si estenderebbe dall’ Europa, attraverso nuovi legami con le popolazioni dei Balcani un tempo parte dell’Impero grazie alle loro componenti musulmane (albanesi, bosniaci, minoranze bulgare e macedoni), alle repubbliche turcofone dell’Asia ex sovietica, nei cui confronti Ankara è pure molto attiva, oltre, naturalmente ai vicini islamici. Osteggiato dagli europei e in qualche misura dai russi, questo disegno neo-ottomano è invece incoraggiato dagli Stati Uniti, che sperano di poter ottenere con Ankara un contrappeso credibile alla potenza iraniana e alle sue mire sull’ Asia Minore ( visita di Ahmadinejad in Libano a metà ottobre), e un’amica sicura in uno scacchiere sul quale giocano un’incerta partita.
Donatella Viti