CORRUZIONE IN RUSSIA: SISTEMICA
La corruzione è il problema più grave della Russia, annunciava cinque anni fa l’Economist, e non è detto che ci ripensi dopo la recente estate di fuoco. Era la Russia gratificata da una crescita economica impetuosa ancorché alimentata quasi esclusivamente dai proventi dell’esportazione di petrolio e oscurata dal crescente divario tra ricchi (con i malfamati “oligarchi” in testa) e poveri. Cominciava ad emergere un inedito ceto medio più o meno borghese, con annesse prospettive di sviluppo della cosiddetta società civile e di sperata evoluzione democratica di un regime semi-autoritario e discretamente repressivo, e peraltro capace di assicurare stabilità politica e maggiore considerazione internazionale rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso.
Per contro, la principale erede dell’URSS doveva fare i conti non solo con la persistente aggressività del terrorismo e della criminalità, organizzata e non, ma anche, appunto, con la corruzione. Con un antico morbo, cioè, diffuso e saldamente radicato in ogni angolo dell’immenso paese, e appena più accentuato in Cecenia e dintorni, già devastati dallo scontro con il separatismo locale e l’estremismo islamico. Un flagello che non risparmiava alcuna componente della società e dell’apparato statale: politica e burocrazia, mondo degli affari e magistratura, forze armate e forze dell’ordine. Una piaga, per di più, in via di estensione. Alla fine degli anni ’90 la Russia si aggirava intorno ad un già indecoroso ottantesimo posto nella classifica mondiale della corruzione. Nel 2005 è precipitata al 126°, condiviso con Niger, Sierra Leone e Albania, e nel 2008 al 147°, in compagnia di Bangladesh, Kenya e Siria. Il voto era 2,1 su 10, contro il quasi 8 della Germania, il 7 abbondante degli Stati Uniti, il 3,5 della Cina.
A differenza di quanto accadeva nell’URSS, dove singoli corrotti venivano di tanto in tanto persino giustiziati ma parlare di corruzione come malanno nazionale poteva condurre in carcere o in manicomio, nella Russia post-comunista il tema non è affatto tabù. Denunce di varia provenienza e sollecitazioni di contromisure non sono mai mancate, né sui media, benché via via addomesticati in larga parte, né in parlamento. Appositi progetti di legge, risalenti al lontano 1994, sono rimasti tuttavia arenati per lunghi anni, sicuramente per cattiva volontà dei rappresentanti del popolo ma anche per il disinteresse o lo scarso impegno al riguardo dei massimi dirigenti, dato che la grande maggioranza della Duma è ligia al potere supremo pur con qualche libertà di critica. Del caso più eclatante di messa sotto accusa per corruzione è stato vittima politica un capo del governo, Michail Kasjanov, destituito nel 2004 probabilmente per avere coltivato ambizioni presidenziali, trovandosi tra l’altro alla testa proprio di un sia pur inerte comitato per la lotta contro la corruzione.
Qualcosa sembra però essere cambiato a partire dal 2008, l’anno in cui la crisi economica mondiale ha cominciato a ripercuotersi, ben presto duramente, anche sulla grande Russia “emergente”. Una coincidenza, verosimilmente, non casuale. La corruzione ha i suoi costi, nella fattispecie oltremodo elevati e ovviamente tanto più onerosi nella nuova situazione. Il volume complessivo dei movimenti di denaro a scopo corruttivo è stato stimato in 250-300 miliardi di dollari all’anno, pari a circa un quinto del Pil e al doppio del bilancio federale. Il grosso di questa cifra viene sborsato dalle imprese, con un versamento medio che tra il 2000 e il 2008 sarebbe cresciuto da 10 mila a 130 mila dollari. Oltre due terzi degli uomini d’affari, secondo il ministero dell’Interno, erano coinvolti nel giro, e alla corruzione veniva destinata più della metà degli introiti della criminalità.
Gli imprenditori, compresi i grandi manager anche statali o parastatali, accampano come scusa la necessità di ottenere entro tempi ragionevoli, o di ottenere tout court, le diecine di permessi e autorizzazioni lesinate da una burocrazia tanto avida quanto pletorica; il numero dei pubblici dipendenti è raddoppiato in una quindicina di anni, a dispetto dell’incessante declino demografico. Minori scuse, al di là delle retribuzioni generalmente parche, possono trovare quanti estorcono ai (o accettano dai) comuni cittadini, per tutta una serie di prestazioni od omissioni, versamenti il cui ammontare complessivo contribuisce, pare, per il 15-20% al totale del denaro sporco circolante. Si tratta, in questo caso, della “corruzione bassa”, ossia delle bustarelle intascate, in base a vere e proprie tariffe, da poliziotti, insegnanti, medici e altro personale sanitario, ecc. Bassa, ma non per questo meno nociva e temibile, come avverte da tempo uno dei personaggi pubblici più impegnati a combatterla (Vedi nota).
I danni che un simile stato di cose infligge al paese, per quanto non esattamente misurabili, sono sicuramente ingenti. Quelli subiti dall’economia nazionale ammontano, secondo certi calcoli, a 20 miliardi di dollari all’anno. Mentre le imprese, tuttavia, possono sempre scaricare i costi delle tangenti su consumatori, utenti, ecc., questi ultimi sono impotenti difronte a prezzi che proprio per quella causa vengono autorevolmente giudicati almeno tre volte superiori al giusto. Con ogni probabilità, inoltre, la corruzione concorre a spiegare come mai in Russia, in piena crisi finanziaria con conseguente recessione, i prezzi al consumo abbiano continuato a salire mentre nel resto del mondo (benchè non in Italia, ma qui una parziale analogia non è certo casuale) incombeva lo spettro della deflazione.
Questo dunque lo sfondo su cui, nell’ultimo biennio, si è finalmente dispiegata una campagna ufficiale contro il malaffare che ha avuto per principali protagonisti i due massimi esponenti politici del paese. Come su altri fronti, anche qui il nuovo presidente della federazione russa, Dmitrij Medvedev, ha sfoderato un impegno più vistoso del suo predecessore, Vladimir Putin, retrocesso (forse solo temporaneamente) a capo del governo ma generalmente ritenuto tuttora l’uomo forte del regime. Se Putin ha quanto meno superato la propensione a minimizzare il fenomeno o a considerarlo con un certo fatalismo, Medvedev ha fatto della lotta contro la corruzione, ancor prima di entrare in carica, un proprio cavallo di battaglia, propugnando un programma nazionale diretto a risolvere un “problema sistemico” e assumendone personalmente le funzioni di promotore, supervisore e controllore. Con quali esiti? Poco soddisfacenti, per il momento, anche se nessuno poteva illudersi di estirpare su due piedi un male plurisecolare muovendo guerra al quale, da Ivan il terribile in poi, i vari reggitori del paese hanno subito solo sconfitte, come avvertono storici e uomini di cultura russi.
Critiche anche aspre, comunque, non sono mancate a quanto finora è stato messo in campo per raggiungere l’obiettivo. L’apposita legge faticosamente approvata dalla Duma ha finalmente recepito, ma solo in parte, norme e misure previste dalle convenzioni internazionali che la Russia ha da tempo sottoscritto. Al centro dell’attenzione e delle attese sta l’obbligo per tutti i pubblici funzionari di dichiarare pubblicamente redditi e proprietà familiari per rispondere poi di eventuali discordanze con il tenore di vita. All’adempimento hanno cercato di sottrarsi, senza successo, i dipendenti del ministero dell’Interno, compresi i membri della polizia già saldamente in testa nelle graduatorie di impopolarità. Resta ancora da piegare, invece,la resistenza del personale dei servizi di sicurezza, delle dogane e del ministero degli Esteri, che accampano un diritto professionale alla segretezza. I critici, d’altronde, sostengono che l’obbligo della trasparenza rimarrà facilmente eludibile se continuerà a riguardare soltanto beni e introiti del funzionario, del coniuge e dei figli minorenni senza estendersi, come molti reclamano a gran voce, anche agli altri congiunti. E che, inoltre, occorra comminare la confisca di quanto acquisito illegalmente, punire i trasgressori con il licenziamento anziché con semplici multe e vietare qualsiasi regalia ai servitori dello Stato anziché fissare solo un tetto di 3 mila rubli.
Sul piano amministrativo un decreto presidenziale ha prescritto la creazione di commissioni anticorruzione in tutti gli organismi statali, formati da rappresentanti dei loro quadri e presiedute dai loro vice direttori. Dalla competenza anche sanzionatoria di tali commissioni sono però esclusi i funzionari superiori nominati dal presidente della federazione e dal governo. Sembrano perciò ignorate le invocazioni, provenienti anche da detentori del potere periferico (adesso non più eletti dal popolo ma nominati dal Cremlino, in omaggio al principio della “verticalità”), di un buon esempio che deve venire dall’alto se si vogliono ottenere risultati. In linea generale, l’idea lascia scettico, fra gli altri, il vice presidente della commissione della Duma per la sicurezza, Gennadij Gudkov: “Non credo all’efficacia di un controllo da parte di funzionari su altri funzionari. Se mandiamo un caprone a sorvegliare l’orto, non mancherà di conciare da par suo qualche aiuola. Si scateneranno guerre tra le varie sezioni perché tutti cercheranno di inviare propri uomini in queste commissioni”
Gudkov preferirebbe un controllo parlamentare. Ma anche la credibilità dei rappresentanti del popolo in materia è oggetto di forti dubbi. Qualche aspettativa di più si appunta sulla magistratura, meno impopolare di altre categorie malgrado la sua prevalente deferenza verso il potere politico e la sua non granitica incorruttibilità. In effetti i tribunali hanno cominciato a condannare con maggiore frequenza e severità corrotti e corruttori, talvolta anche di rango. Nella rete della giustizia hanno continuato tuttavia a cadere soprattutto i pesci piccoli, e senza che ciò bastasse ad impedire un aggravamento del male nel suo complesso. Secondo dati del ministero dell’Interno, ricavati da quanto emerso in sede giudiziaria, nella prima metà di quest’anno la mazzetta media è aumentata da 23 mila a 44 mila rubli; ancora molto poco, peraltro, visto che l’ammissione in alcune facoltà universitarie può costare fino a 100 mila dollari. Georgij Satarov, direttore di un istituto di ricerca indipendente, osserva in proposito che se la giustizia fosse stata meno tenera con i pesci più grossi quella media sarebbe aumentata di varie centinaia di volte.
Qui naturalmente il discorso non può non sconfinare sul terreno politico. Non pochi in Russia insistono a confidare in ritrovati tecnici più o meno sofisticati per venire a capo del problema, guardando magari a modelli stranieri come ad esempio quelli collaudati in Corea del sud, a Hongkong o a Singapore. Si continua ad additare anche l’esperienza italiana, sorvolando apparentemente sul carattere effimero, nella migliore delle ipotesi, dei successi di Mani pulite. L’opinione pubblica meno timida obietta che il problema potrà essere avviato a soluzione solo nel quadro di un sistema più sostanzialmente democratico, fondato sui controlli dal basso oltre che su uno stato di diritto meno carente di quello attuale. Anche se qui, invece, l’esperienza italiana, e non solo italiana, dimostra che la democrazia sarà indispensabile ma non è certo sufficiente.
Nel caso russo, ostacoli specifici da superare sono sicuramente la persistenza di un settore economico e finanziario statale non solo massiccio ma in via di ulteriore espansione e le peculiarità di questa stessa ristatalizzazione, che qualcuno d’altronde non esita a bollare in quanto destinata in ultima analisi a favorire interessi privati. La diffusa commistione tra politica e affari era già evidenziata al più alto livello, per un verso, dalla presenza di numerosi ex dirigenti e collaboratori dell’FSB, il servizio segreto erede del KGB sovietico dal quale proviene Putin, al vertice di grandi imprese e organi statali. Per un altro, dal fatto che mentre gli oligarchi ribelli a Putin sono stati costretti all’esilio oppure spogliati e incarcerati come il ben noto Chodorkovskij, i tanti altri rimasti devoti all’ex presidente hanno continuato a prosperare malgrado la crisi e la profonda ostilità che li circonda nel paese. La destituzione in settembre del sindaco di Mosca, Luzhkov, per eccesso di affarismo e arricchimento illecito, sembra un segnale solo parzialmente positivo, tenuto conto che il peso anche politico del personaggio dava certamente ombra ai diarchi. A quanto risulta, la cerchia dei privilegiati tende ora ad ampliarsi, semmai, con politici e burocrati protesi ad investire a loro volta in attività industriali, commerciali o bancarie capitali difficilmente accumulabili senza tolleranze e connivenze orizzontali e verticali.
Così stando le cose, può persino stupire che Medvedev, parlando a fine luglio in veste ufficiale, si sia mostrato persino più insoddisfatto di chi da tempo reclama misure più drastiche. Il capo dello stato ha sottoscritto tale richiesta, infatti, dopo avere riscontrato una “totale assenza di successi significativi” nella campagna in corso e l’insufficienza dei pur aumentati casi di smascheramento e punizione dei colpevoli, che “rappresentano solo la punta dell’iceberg”, per concludere che la repressione deve essere intensificata a tutti i livelli. La combattiva Elena Panfilova, pur definendo risibili le dichiarazioni fiscali di molti notabili, vede invece compiuto un importante passo avanti perché le dichiarazioni di quest’anno potranno essere utilmente confrontate con quelle dei precedenti e del prossimo nonché con le spese dei dichiaranti e dei loro familiari.
Un pronunciamento credibile, quello di Medvedev? Forse sì, a livello intenzionale. Ma per potersene attendere effetti concreti bisognerebbe almeno che avesse visto giusto il sopracitato Saratov, il quale ipotizza che l’establishment russo sia ormai seriamente orientato ad instaurare un vero Stato di diritto: se non altro, per consolidare indirettamente, con la legalizzazione, i frutti privati finora ricavati dalla transizione al capitalismo. Una sorta di condono, insomma, a costo di smentire un antico adagio latino.
Franco Soglian
(Nota)
Elena Panfilova, direttrice del Centro ricerche e iniziative “Transparency International – Russia” e membro del Consiglio presidenziale per il sostegno allo sviluppo degli istituti della società civile e dei diritti dell’uomo, ritiene che il grosso della popolazione russa sarebbe più sensibile all’esigenza di combattere la corruzione se si rendesse adeguatamente conto delle sue conseguenze. Ecco come ne descrive alcune.
Il vostro datore di lavoro si accinge a ripartire i premi tra i collettivi, ma ha dovuto cedere ai controllori di turno una parte della torta, che risulta perciò più bassa di 5 centimetri di quanto previsto. Pagate un tributo alla corruzione, a vantaggio di numerosi “autorizzatori” e “guardiani della legge”, ogniqualvolta fate un acquisto, che si tratti di latte nostrano o di jeans importati. Noi acquistiamo tutto a prezzi superiori di tre volte, come minimo, a quelli giusti. Un’enorme quantità di mazzette e tangenti è compresa nel prezzo per metro quadrato di un’abitazione… Ma il peggio avviene quando vengono vendute la vostra salute e la vostra vita. Una maestra d’asilo affetta da epatite può comprare un certificato medico [di idoneità]. Un guidatore alcoolizzato ma con patente [comprata] può uccidere i vostri figli o renderli orfani al primo incrocio. Comprando un lasciapassare alcuni terroristi arricchiscono un vigile urbano e poi trucidano alcune diecine di persone. Della sicurezza nazionale si occuperà un funzionario che deposita milioni su conti bancari stranieri, compra ville all’estero e vi trasferisce la famiglia? Cosa farà se si troverà nel mirino di servizi speciali stranieri o di uomini di Al Qaeda? (da “Argumenty i fakty”, n. 25, 2010)