Insieme a sfracelli ed angosce solo in parte rientrati, la crisi economica mondiale ha generato non pochi ripensamenti e riesumazioni. Tra le meno prevedibili (ma forse a torto) di queste ultime si annovera l’imposta patrimoniale, uno strumento fiscale che sembrava pressocchè dimenticato e comunque irrimediabilmente anacronistico nell’era della new economy, della deregulation, dei Chicago boys e così via. In Italia la sua sepoltura era stata in certo qual modo suggellata dall’estromissione dal parlamento dei partiti di estrema sinistra, gli ultimi a rivendicarla come un’irrinunciabile ma ormai esclusiva bandiera. Bandiera di classe? Non necessariamente, visto che “la patrimoniale”, in passato, era stata considerata legittima e auspicabile anche da autorevoli studiosi ed esperti per nulla marxisti; qualcuno era arrivato a definirla un’imposta tipicamente liberale.
Negli ultimi decenni, comunque, era di fatto quasi scomparsa oltre a diventare un tabù in sede politica e scientifica. Sopravvive tuttora in Francia, dove l’aveva introdotta Mitterrand all’inizio degli anni ’80 e non è stata soppressa dai successivi governi di centro-destra, e dove però penalizza la ricchezza in misura molto modesta, non riguarda i patrimoni societari e serve più che altro a controbilanciare idealmente la preponderanza (caso unico in Europa) delle imposte indirette sulle dirette. In Germania è stata affossata nel 1995, benché non formalmente abrogata, da un verdetto della Corte costituzionale, in quanto lesiva, nella specifica versione tedesca, di alcuni principi basilari della Grundgesetz.
Altrove non esiste o incide in misura trascurabile, sempre che si parli della patrimoniale in senso stretto e non del complesso delle imposte che colpiscono direttamente o indirettamente i patrimoni nelle loro diverse componenti. Nel secondo caso può stupire che percentuali superiori al 10% sul totale del prelievo fiscale e dei contributi assistenziali si registrino (cifre OCDE del 2008) soltanto negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, con il Giappone appena al di sotto di quella quota. Ma nei primi due paesi la cosa si spiega con il peso eccezionale dell’imposta fondiaria, principale fonte di finanziamento dei servizi comunali. Negli altri paesi membri dell’OCDE la stessa percentuale scende anche molto al di sotto della media (5,6), e in quasi tutti il calo è stato più o meno sensibile nel corso del primo decennio del secolo.
Con lo scatenarsi della crisi planetaria, tuttavia, il vento è cambiato, quanto meno nel senso che dell’imposta patrimoniale propriamente detta si è tornati a parlare come di un’opzione non più inconcepibile o impraticabile bensì raccomandabile o addirittura ineludibile. In Italia, come ben sanno i frequentatori della rete, l’hanno fatto, già lo scorso anno, personaggi di spicco quali Giuliano Amato e Carlo De Benedetti, prontamente rimbeccati da un esperto come Oscar Giannino e dalla sua squadra. Più di recente, per citare un altro esempio, l’economista Alberto Quadrio Curzio ha spezzato una lancia a favore dell’introduzione dell’imposta in Grecia per parare anche con mezzi di emergenza il rischio della bancarotta statale e al tempo stesso le reazioni popolari ad un piano di austerità male calibrato. In linea generale l’efficacia dello strumento è stata invece negata, tra gli altri, dall’attuale numero uno della Banca mondiale, l’americano Robert B. Zoellick, contrario anche all’innalzamento delle imposte sul reddito.
Un possibile rilancio in piena regola a livello politico, ma non solo, si è profilato in Germania. Rovesciando l’indirizzo dell’ex cancelliere Schroeder, i nuovi dirigenti della socialdemocrazia hanno inserito il recupero della patrimoniale nel programma del partito varato nel congresso dello scorso novembre. Ciò è avvenuto dopo la dura sconfitta elettorale che ha relegato la SPD all’opposizione, ma le sue successive riscosse regionali e il precoce indebolimento della coalizione cristiano-liberale guidata da Angela Merkel lasciano presumere che non si tratti di un’emarginazione duratura. Nel contempo, voci favorevoli al recupero si sono levate da parte dell’episcopato, aggiungendosi ad uno schieramento che già comprende ambienti sindacali e dell’estrema sinistra, la Linke entrata un anno fa nel parlamento federale.
Novità vengono però anche dal campo delle vittime predestinate di un eventuale ripristino dell’imposta. Qualche mese addietro in Italia si faceva del sarcasmo su un facoltoso psichiatra tedesco in pensione, dipinto come probabile disturbato mentale per colpa dello statalismo imperante (?), il quale aveva reclamizzato in un talk-show televisivo l’idea balzana di fondare un movimento di benestanti favorevoli al ripristino, ritenuto necessario per aiutare ad impedire un tracollo economico rovinoso per tutti, ricchi e poveri, e a mantenere quindi la pace sociale. Accade tuttavia che questo movimento sia davvero nato e conti già una cinquantina di membri; forse ancora un po’ pochi, benchè, volendo proseguire sul filo del sarcasmo, ne basterebbe qualcuno di più per avvicinare la cifra di quanti in Italia denunciano redditi tali da garantire una certa agiatezza, tra la prevalente indifferenza della pubblica opinione.
Il numero dei teutonici votati al sacrificio dovrebbe comunque crescere parecchio. Secondo una recente rilevazione, effettuata su un campione di 500 detentori di patrimoni, due terzi di questi darebbero volentieri un maggiore contributo fiscale al benessere collettivo. Nel frattempo, del resto, al di là dell’Atlantico un mostro sacro come Bill Gates, ormai dedito alla filantropia intesa in senso molto ampio, è impegnato insieme ad altri celebri miliardari per assoggettare la categoria ad una drastica imposta di successione e/o patrimoniale.
E’ appena il caso di ricordare, in conclusione, che non sono certo immaginarie né trascurabili le molteplici difficoltà pratiche che si frappongono, insieme a qualche controindicazione ugualmente seria, all’introduzione o reintroduzione di un’imposta tradizionalmente controversa a tutti i livelli. Chi non dispone di conoscenze adeguate per approfondire l’argomento può limitarsi ad osservare che, esistendo un’ovvia differenza tra imposta permanente e imposta straordinaria, ovvero una tantum, almeno quest’ultima potrebbe risultare funzionale, in un adeguato contesto, ai fini di un abbattimento di debiti pubblici tanto onerosi quanto pressocchè inattaccabili prima ancora della crisi planetaria. Dopotutto, utili esperienze del genere sono già state fatte, in Germania come in Italia, ma anche altrove, intorno alla seconda guerra mondiale e dopo la crisi economica degli anni ’30, secondo molti meno grave dell’attuale.
Licio Serafini