C’è del marcio a New York. E il furore intorno alla moschea di Ground Zero è solo la punta dell’iceberg. La vicenda che ha rimesso la Grande Mela al centro del dibattito nazionale e internazionale, infatti, è solo la punta dell’iceberg di un crescente scontro culturale che avvolge l’America fin dal 2001, ovvero dai giorni dell’Operazione Enduring Freedom e dell’imporsi all’attenzione pubblica del concetto di ‘Islamofascismo’. Uno scontro culturale che si propaga senza sosta in lungo e in largo per gli Stati Uniti, proprio come un rapido contagio, infiammando l’opinione pubblica in un periodo di grande scontento generale.
Arrivati a questo punto, la questione riguardo il diritto o meno all’esistenza della moschea prevista al Park51 dovrebbe già essere stata risolta. Nella decisione non dovrebbe essere determinante l’evidenza che negli immediati dintorni di Ground Zero ci siano già altre due moschee, la Majid Manhattan e la Masjid al-Farah: la vera risposta, supportata dalla Costituzione Americana, è che la moschea Park51 – molto semplicemente – ha diritto di sorgere lì. Ma ciò non ha placato il temperamento di persone come Pamela Geller e Robert Spencer, che tramite la loro associazione ‘Stop Islamization of America’ (SIOA) hanno dichiarato guerra totale a quella che definiscono la ‘Moschea della Supremazia Islamica’. Un’associazione che, stando al loro sito, difende la ‘libertà religiosa’:
Ricordate: siamo in guerra. Stiamo combattendo per la nostra nazione, per i nostri valori e per i principi costituzionali di libertà che hanno reso grande l’America. Siamo in guerra per la libertà di parola, l’uguaglianza dei diritti delle donne, e per la libertà di coscienza – tutte cose negate dalla legge islamica.
Le incongruenze sono visibili a occhio nudo. Se la SIOA combatte per la difesa dei valori americani, non dovrebbe essere a favore della costruzione di una moschea guidata da un imam moderato? Non dovrebbe, la SIOA, essere dalla parte dei musulmani americani che sono morti nell’attacco dell’11 Settembre, e di quelli che – ancora oggi – combattono in Afghanistan e in Iraq? E, soprattutto, contro chi stanno combattendo i ‘patrioti’ americani della SIOA? Dando una rapida occhiata ai confini americani, non mi sembra di vedere orde di barbari che si riuniscono con aria sediziosa preparandosi alla presa della Casa Bianca.
Ma i sostenitori della filosofia della SIOA (che è poi quello dei Tea Parties, e dunque di Glenn Beck e Sarah Palin) non sono particolarmente preoccupati delle incongruenze. Il loro è un mantra di supremazia etno-religiosa, e la loro islamofobia si sta rapidamente trasformando in una nuova e rabbiosa forma di razzismo. La SIOA ha programmato un raduno per il prossimo 11 Settembre e uno degli ospiti invitati a parlare sarà l’estremista politico olandese Geert Wilders, che in un’intervista ha affermato che ‘l’Islam non è una religione, ma un’ideologia: l’ideologia di una cultura ritardata’. Quello che preoccupa è la constatazione che questo sentimento, una volta relegato nella marginalità di subculture sotterranee e minoritarie, stia ora lentamente uscendo allo scoperto, fino a diventare mainstream.
Movimenti contrari alla costruzione di questa e altre moschee stanno fiorendo in varie parti d’America. A Temecula, in California, gruppi di manifestanti si sono riuniti brandendo cartelloni con la scritta ‘No Allah Law Here’, in aperta ostilità con il Centro Islamico di Temecula Valley, che vorrebbe costruire una moschea di oltre 2.000 metri quadrati su alcuni terreni inutilizzati di cui è già entrato in possesso. Un Centro Islamico a Florence, Kentucky, è apertamente attaccato da un website anonimo (‘Stop the Mosque’), e inoltre vi sono state diverse segnalazioni di un anonimo oppositore – soprannominato ‘il vigilante’ – che va in giro appendendo volantini che intimano l’immediato stop dei lavori di costruzione della moschea. E poteva forse mancare un bel rogo di libri? Terry Jones, il pastore del Dove World Outreach Center di Gainesville, in Florida, sta programmando una giornata internazionale dedicata a bruciare il Corano (International Burn a Quran Day), ovviamente per il prossimo 11 Settembre. Lo scopo dichiarato è quello di inviare ‘un messaggio molto chiaro, e radicale, ai musulmani: la legge della Sharia non è la benvenuta in America’.
L’islamofobia ha trovato risonanza anche fra i politici di professione. Il New York Times riporta che il repubblicano Allen West ha definito l’Islam ‘un nemico pericoloso’, mentre un suo compagno di partito, il candidato al Congresso Ron McNeil, ha attaccato l’Islam definendolo una minaccia ‘al nostro modo di vivere’. E come se tutto ciò non fosse abbastanza, alcune frange stanno convertendo in chiare manifestazioni di violenza questi discorsi di stampo intollerante. Il 25 Agosto, a New York City, il tassista Ahmed Sharif è stato brutalmente accoltellato da uno squilibrato che poco prima gli aveva chiesto se era musulmano. E il giorno dopo, nel Queens, un uomo è piombato nella Moschea Imam ad Astoria e ha urinato sul tappeto delle preghiere.
E’ ormai evidente quello che sta succedendo: vaghe e infondate dichiarazioni di intolleranza, basate su razzismo e odio etno-religioso, stanno trovando discepoli volenterosi. Ma ancora più evidente è la mutazione di questo programma estremista: da filosofia spicciola e minoritaria, intrisa d’ignoranza, a fenomeno politico e sociale.
Un recente sondaggio del Pew Research Center for the People and the Press ha rilevato che un numero sempre crescente di americani (ora il 18%) crede che il Presidente Barack Obama sia musulmano. Questo risultato, chiaramente, è da mettere in relazione al generale malcontento della Middle Class americana, ma non può sfuggire che evidenzia anche la presenza di una volontà mistificatoria nei confronti del Presidente. “I dati del Pew hanno evidenziato che fra Repubblicani e Conservatori – ovvero i gruppi che non amano Obama – raccoglie sempre più adesioni la credenza che Obama sia musulmano”, scrive David P. Redlawsk, direttore dell’Eagleton Center per i Sondaggi di Interesse Pubblico.
Ma, chi sono questi islamofobi? Da dove viene la loro rabbia? E ancora, qual è l’elemento unificante dei loro – variegati – sentimenti ostili? E’ forse l’Islam in quanto tale? La disoccupazione? La mancanza di fiducia verso i politici di Washington? O magari la sfiducia, più in generale, nella democrazia? Dichiararsi sostenitori dei valori americani di libertà è un’affermazione senza dubbio vaga (non siamo forse una società pluralista in cui convivono molti, e diversi, concetti e principi di libertà?), ma la formulazione di un mantra aggressivo, basato su concetti ideologici e astratti, è chiaramente il fondamento di un pericoloso populismo.
Con i dati sull’occupazione praticamente immobili, e con quelli legati all’economia che promettono generazioni perdute invece che una riedizione dei bei tempi d’oro, la rabbia che sentono gli americani potrebbe essere – a volerle dare un nome più preciso – quella della perdita di opportunità. L’America, da sempre, è la terra del sogno; oggi, tuttavia, sembra offrire soprattutto pignoramenti e code di disoccupati. Arianna Huffington dell’Huffington Post ha perfino cominciato a definire il paese ‘un’America del Terzo Mondo’. Ma la ricerca di un’anima vera per questo paese confuso, e magari anche del vocabolario adeguato per esprimere la sua rabbia, andrebbe condotta prima che l’epoca di Obama si tramuti – suo malgrado – in una Repubblica di Weimar a stelle e strisce; prima che i discorsi improntati all’odio e alla diffamazione possano essere catalogati come cupo antipasto di un clima di vera e propria violenza islamofobica.
Il rischio è che i musulmani americani si ritrovino, loro malgrado, a essere i capri espiatori di una lista di problemi più ampi. Le pene degli americani di oggi, siano esse di natura politica o economica, appartengono a tutti, dai banchieri di Wall Street ai deputati del Congresso, per finire ai comuni cittadini elettori.
Alla fine dei conti, se c’è qualcosa che possiamo imparare da questo polverone e dalle grida che si sono alzate intorno a parole quali ‘valori’ e ‘libertà’, è che non c’è niente di più anti-americano che prendersela con un gruppo di individui per una crisi che appartiene all’intera collettività.
Andrew Z. Giacalone
traduzione di Leonardo Staglianò
photo: nowtheendbegins.com