“Uno spettro si aggira per l’Europa”, potrebbe annunciare oggi un Carlo Marx redivivo. Non si tratta di una resurrezione del comunismo, anche se il nuovo spettro ha qualcosa a che fare con il comunismo o più precisamente con il defunto “socialismo reale”; purtroppo per chi eventualmente lo rimpianga. Si trarra invece della corruzione, che sembra dilagare nel vecchio continente coinvolgendone anche le regioni finora relativamente indenni o meno gravemente infette. Non soltanto, cioè, le lande meridionali, dove il morbo è sempre stato più di casa, dai tempi di Dante, per dire, fino a quelli di Mani pulite. Né soltanto nell’Est europeo, dove già i vecchi regimi autoritari o totalitari dominanti si erano rivelati incapaci di estirpare davvero l’antica piaga e destinati piuttosto per la loro stessa natura a favorirne la diffusione. E dove, comunque, il loro crollo, seguito da una transizione inevitabilmente travagliata ad un sistema diverso sotto ogni aspetto, non poteva non contribuire a gonfiare ed aggravare il fenomeno, oltre a conferirgli piena visibilità.
Oggi nella Russia di Putin, semi-autoritaria o, optando per l’eufemismo, a democrazia temperata, sul problema della corruzione divampa un vivace dibattuto sia a livello di opinione pubblica sia in sede istituzionale. E’ un progresso, certo, rispetto alla precedente negazione per principio dell’esistenza di un problema nazionale del genere. I massimi dirigenti moscoviti, anzi, sono dichiaratamente impegnati ad affrontarlo e risolverlo; con quanta credibilità, però, resta da vedere. Per l’altra grande ex sovietica, l’Ucraina, gli osservatori parlano di malanno “endemico” e “sbalorditivo” (staggering, così l’Economist) per le sue dimensioni. Nel resto dell’ex “campo socialista” una situazione analoga caratterizza innanzitutto l’area balcanica, concorrendo non poco ad ostacolare il pieno inserimento della Bulgaria e della Romania nell’Unione europea. Ma nuovi partiti sono comparsi e uomini politici sono saliti alla ribalta anche in paesi con migliore reputazione, come Polonia e Repubblica ceca, proprio alzando la bandiera della lotta contro la corruzione. Contro un male, dunque, che l’apparente consolidamento di regimi democratici non è bastato ad estirpare, com’era facile prevedere.
Nessuno, del resto, sembra immune dal contagio, quando di contagio si tratti e non di generazione spontanea, al di qua come al di là della vecchia cortina di ferro. Non parliamo, naturalmente, dell’Italia, leader su scala mondiale in fatto di corruzione così come di criminalità organizzata; un campo, questo, più o meno strettamente intrecciato con quello in argomento e nel quale il nostro paese vanta ben noti titoli di battistrada. Pochi dubitano, oggi, che l’epopea di Mani pulite non abbia prodotto frutti duraturi; le graduatorie internazionali continuano a collocarci nelle posizioni di coda, cioè tra i peggiori, in Europa, molto più indietro nel mondo, alle spalle di concorrenti quali Turchia e Cuba, e a quanto pare con un ulteriore arretramento negli anni più recenti. Appena un po’ meglio di noi, forse, sta la Spagna, dove a suo tempo la corruzione fu causa preminente della caduta del lungo governo socialista di Felipe Gonzales, non senza analogie con quella di Bettino Craxi in Italia. Ma i suoi temporanei eversori di destra non hanno saputo fare molto di meglio: i più clamorosi scandali esplosi dopo il ritorno dei socialisti al potere con Zapatero hanno macchiato soprattutto uomini e attività del Partito popolare già capitanato da Aznar e rimasto forte in provincia.
L’Europa centro-occidentale e settentrionale presenta ancora un volto sicuramente più virtuoso di quella meridionale. Non mancano tuttavia neppure qui sintomi di deterioramento, per quanto prevalentemente concentrati in un settore specifico nel quale comportamenti disinvolti e mancanza di scrupoli non erano certo privi di tradizioni storiche: quello dei rapporti commerciali e in particolare delle forniture militari soprattutto a paesi meno sviluppati. In Francia, Germania e Gran Bretagna i maggiori scandali degli ultimi anni hanno infatti chiamato in causa le responsabilità di grandi gruppi industriali per numerosi episodi di corruzione attiva e passiva a tale riguardo, ovviamente non senza connivenze di vario tipo da parte di ambienti governativi o comunque politici. Nelle relative denunce, accuse e richieste di adeguate contromisure, oltre a severe punizioni, vengono stigmatizzati i multiformi danni che simili pratiche recano all’insieme delle comunità nazionali o statali cui quelle società (non sempre esclusivamente private) appartengono. Un motivo in più, quindi, per non sminuire la rilevanza di questi casi.
D’altronde, contigua su un versante alla criminalità organizzata, la corruzione lo è su un altro anche a forme di trasgressione o irresponsabilità meno plateali e più inedite, ma magari ancor più gravide di rovinose conseguenze, cui la accomuna se non altro la matrice predominante dell’avidità. Rientrano perciò nel tema i recenti comportamenti di tanta parte del mondo finanziario soprattutto anglosassone che hanno provocato la crisi planetaria ancora non esaurita. E il discorso riguarda in primo luogo la Gran Bretagna e la sua relazione, finora “speciale” anche qui, con gli Stati Uniti. I quali, principali generatori del fenomeno, sono in compenso corsi ai ripari reprimendo col massimo rigore almeno le sue manifestazioni estreme, a differenza di quanto avviene in Europa. Il problema generale di come combattere il male e impostare le possibili terapie rimane tuttavia assolutamente aperto a causa della sua ovvia complessità, che qualcuno potrebbe chiamare piuttosto intrattabilità e persino congenita incurabilità. Nell’era della globalizzazione, che sicuramente complica e ingigantisce ogni problema, ma al tempo stesso ne impone e quindi dovrebbe agevolare un trattamento il più possibile uniforme e condiviso, lo sforzo diventa comunque tanto più auspicabile e necessario.
Franco Soglian